Dal 1896 il saggio medio di crescita della produzione industriale registrò un notevole aumento, iniziò una fase intensa di sviluppo che portò a rilevanti mutamenti di ordine strutturale.
Questa svolta fu determinata da molteplici fattori, sia esogeni che endogeni; è difficile valutare il peso specifico di ciascuno, sta di fatto che tutti insieme concorsero alla riattivazione dei meccanismi di accumulazione e all’espansione economica. Gli elementi esogeni che portarono al cambio di rotta furono l’inversione del ciclo economico, la scoperta delle miniere aurifere del Transvaal, incremento delle risorse energetiche, comparsa sul mercato di nuovi prodotti,sviluppo dei sistemi di comunicazione; quelli endogeni, invece, il risanamento della finanza pubblica, il rafforzamento della Banca d’Italia, la stabilità della lira, maggiore propensione al risparmio e un più efficace intervento dello Stato.
In breve tempo crebbero la liquidità, gli investimenti, la produzione, i consumi e le esportazioni; venne a modificarsi sensibilmente la configurazione e l’assetto del sistema economico; acquisirono sempre più spazio l’industria pesante, quella chimica e la meccanica di precisione; si ampliarono le dimensioni di impresa e si affermarono nuove forme di organizzazione e gestione industriale; aumentò il ricorso al mercato dei capitali e si estese il campo d’azione dei poteri pubblici.
Un altro fattore da evidenziare che contribuì alla notevole crescita dei primi anni del ‘900, fu la crescita della popolazione urbana che agì da incentivo allo sviluppo. Le città del Nord registrarono sensibili incrementi della densità abitativa, tant’è che furono necessari piani di sviluppo edilizio e di risanamento urbano che arrivarono nel1904 con una legge presentata da Giolitti dove venne ridefinita l’imposta sulle aree fabbricabili, e vennero accordati stanziamenti per lo sviluppo dei primi istituti per le case popolari. “La crescita delle dimensioni demografiche e territoriali delle città determinò non soltanto un ampliamento del mercato per la maggior domanda di beni e servizi, ma anche lo sviluppo di infrastrutture e di altre risorse non quantificabili ma egualmente importanti, come quelle rappresentate da istituzioni finanziarie, servizi di scambio e attività di intermediazione. Inoltre l’ingrandimento dei centri urbani si accompagnò con l’elevazione dei livelli d’istruzione, con la creazione di strutture di ricerca e di informazione, con la nascita di nuove funzioni amministrative. In tal modo venne crescendo il capitale umano, un complesso di attitudini e di capacità che arricchì il tessuto sociale e le potenzialità del sistema economico” .
Nello stesso tempo si registrò un forte movimento migratorio anche verso l’estero, furono in particolari gli abitanti delle regioni meridionali a partire verso paesi transoceanici; questo fenomeno ebbe numerosi riscontri positivi, funzionò come valvola di sfogo della crescente eccedenza di popolazione e delle tensioni sociali; contribuì in maniera significativa allo sviluppo dell’economia italiana, infatti in quegli anni le rimesse degli emigranti coprirono più della metà della parte attiva della bilancia dei pagamenti e ciò consentì l’importazione di materie prime e di beni capitali indispensabili alle crescenti esigenze della produzione industriale. Inoltre le numerose comunità di emigranti che si stabilizzarono nei paesi stranieri aprirono e/o ampliarono l’accesso ai mercati locali per le esportazioni di prodotti italiani, nei settori tessili e alimentari in particolare. Infine “fu rilevante anche l’apporto dell’emigrazione alla crescita della domanda interna e degli investimenti, le rimesse aumentarono sia le capacità di spesa sia le possibilità di risparmio di numerose famiglie; […]permisero di riscattare anticipatamente il debito pubblico collocato all’estero e a disporre di riserve valutarie tali da rafforzare il valore della lira e l’affidabilità dell’Italia nel mercato finanziario internazionale”.
La ripresa economica incoraggiò il rinnovamento nel settore dell’agricoltura,vennero introdotti nuovi metodi colturali e attrezzature che portarono a ridurre la manodopera e l’eccessiva divisione della terra tra tanti piccoli coltivatori; a rendere possibile tale crescita contribuirono la diffusione di concimi chimici, l’uso di macchine agricole come la trebbiatrice a vapore, falciatrici e mietitrici, e il miglioramento degli attrezzi già esistenti come l’aratro.
Le regioni settentrionali che vantavano più esperienza nella scelta delle sementi e nell’utilizzazione di concimi chimici arrivarono a fornire quasi due terzi della produzione totale di frumento; la coltivazione del riso nelle zone di Novara e Vercelli concorse al maggior progresso dell’agricoltura padana e grazie alle esportazioni sui grossi mercati di Argentina e Stati Uniti si consolidò lo sviluppo delle grandi imprese agricole. Inoltre il regime protettivo garantito dallo Stato rappresentò per i grandi proprietari del Nord, i fittavoli e le principali aziende della Media e Bassa padana un incentivo a estendere la coltura granaria a tutte le superfici non ricoperte da viti o alberi da frutta, a incrementare la produzione con l’investimento di nuovi capitali e l’impiego di moderne attrezzature. Anche la coltura cerealicola fu supportata da norme protezionistiche, che consentirono la diffusione di impianti più evoluti di prima lavorazione; questi e altri elementi assicurarono all’agricoltura delle pianure settentrionali una produzione equivalente al 31% di quella totale nel 1910. Al contrario, nel resto della penisola lo sviluppo fu decisamente più modesto, le produzioni di olio e vino non registrarono incrementi significativi e le esportazioni vinicole subirono le conseguenze negative dovute a forti oscillazioni stagionali, solo le esportazioni di agrumi raddoppiarono tra la fine dell’ 800 e l’inizio del ‘900.
In conclusione furono quindi le imprese a conduzione capitalistica della Val Padana a trainare lo sviluppo dell’agricoltura, e furono loro a beneficiare dei maggiori servizi messi a disposizione dalle amministrazioni pubbliche come scuole tecniche, stazioni agrarie e istituti sperimentali, opere di bonifica, credito agricolo e migliore conservazione dei prodotti. Inoltre numerose iniziative cooperative e movimenti organizzati di leghe contadine e braccianti agirono da incentivo per lo sviluppo e il rinnovamento delle attrezzature e i macchinari usati nei campi. Il risultato che si ottenne fu una bilancia commerciale per la parte agricolo-alimentare che si chiuse in pareggio fino all’avvento della Grande Guerra.
Industria elettrica.
L’affermazione delle industrie elettriche fu tra gli eventi di maggior rilievo nel periodo Giolittiano, poiché permise anche ad altri comparti dell’industria di trarre benefici in termini di efficienza e competitività; proprio per questo furono investiti cospicui mezzi finanziari, circa il 20 per cento degli investimenti registrati tra il 1896 e il 1914. La crescita del settore fu possibile grazie ai miglioramenti nei mezzi di trasporto, che risolsero due grossi problemi dell’elettricità, il primo era l’impossibilità di immagazzinare l’energia e il secondo le difficoltà di vettoriamento; inoltre le banche miste e importanti società finanziarie sostennero la costruzione dei primi impianti elettrici e infine contribuì anche la costruzione di numerose centrali idroelettriche che sfruttavano i bacini del territorio alpino.
Lo sviluppo delle industrie elettriche fu tale da riuscire a limitare l’uso di carbon fossile fino a ridurne l’incidenza dell’80 per cento sul fabbisogno totale; funzionò da trainante per lo sviluppo industriale di altri settori, permise di far fronte alle esigenze operative dei nuovi macchinari presenti in particolare negli stabilimenti tessili, chimici e meccanici, dove furono reclutati tecnici, ingegneri e progettisti per lo sviluppo di attrezzature più moderne ed efficienti. L’elettrificazione diede maggior libertà di scelta nella localizzazione degli opifici che fino ad allora risiedevano in località di montagna, lontani dai centri abitati e dalle zone commerciali in quanto legati al problema dell’approvvigionamento di forza motrice per far funzionare gli impianti.
Le più importanti società elettriche furono l’Edison, società leader nel settore che riuscì a conquistare le più importanti concessioni idroelettriche e le principali reti di trasporto in Lombardia e nelle regioni del Nord; e il gruppo della Bastogi, confluito nel 1899 nella società meridionale di elettricità, che si assicurò il mercato delle regioni del Mezzogiorno ed estese i suoi interessi in numerose aziende sussidiarie.
Alla vigilia della prima guerra mondiale l’Italia deteneva il quarto posto nel mondo in termini assoluti per potenza installata fornita dall’energia idroelettrica, nonostante fosse distribuita in maniera disomogenea sul territorio nazionale, le regioni settentrionali usavano il 60% dei kw installati presso le industrie trasformatrici.
Industria meccanica.
Tra il 1896 e il 1908 si assisté a un considerevole sviluppo dell’industria meccanica, il saggio di aumento della produzione crebbe del 12,2 per cento; l’impulso all’espansione arrivò dai comparti industriali agricoli e tessili, che necessitavano di macchinari meccanici per incrementare le loro produzioni e ottenere prodotti qualitativamente migliori.
Il ruolo più importante lo ricoprirono le industrie addette alla produzione di materiale ferroviario, che con la nazionalizzazione della rete ferroviaria e la necessità di ampliare e migliorare il servizio, dovettero compiere un importante rinnovamento degli impianti e dei macchinari di produzione e apportare delle modifiche alla struttura organizzativa; il lavoro di costruzione di locomotive, carrozze e carri fu immenso, ma non mancarono in questa fase gli interventi governativi che stanziarono fondi in favore dei cantieri nazionali, sollevarono le imprese dalla concorrenza straniera, e assicurarono loro la maggior parte delle forniture. Questo settore riscontrò alcuni problemi durante l’espansione a causa delle materie prime a prezzi elevati e la poca specializzazione nelle tecniche di produzione, così nel 1903 venne concessa l’autorizzazione a importare temporaneamente materie prime, in modo tale da incoraggiare gli imprenditori a immettere capitali in questo settore e aprire alla produzione meccanica italiana sbocchi remunerativi anche all’estero.
L’altra branca dell’industria meccanica che iniziò a svilupparsi in Italia, tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del ‘900, fu quella della produzione di autoveicoli nelle zone di Milano e Torino. La vera crescita di questo settore arrivò però nei decenni successivi a causa della marcata struttura artigianale, l’eccessiva frammentazione del comparto, la scarsa domanda interna di autoveicoli, le difficoltà di costruzione e la forte concorrenza straniera. L’automobile a inizio secolo era ancora un bene di lusso che solo una ristretta cerchia di persone poteva acquistare. Solo dopo una fase di ristrutturazione che portò alla chiusura di molti stabilimenti, a una concentrazione societaria e a una diversificazione produttiva l’industria automobilistica riuscì ad ottenere buoni risultati in termini di crescita; furono risparmiate le principali case automobilistiche come Fiat, Lancia e Bianchini e venne favorita la nascita di nuove aziende come l’Alfa.
Nel campo dell’elettromeccanica vennero compiuti notevoli progressi nella produzione di piccoli motori elettrici, cicli e motocicli, e generatori elettrici; la produzione italiana però non riusciva a soddisfare le crescenti richieste delle imprese che così si rivolgevano a società francesi, inglesi e belghe. Le uniche aziende italiane che raggiunsero una modesta importanza furono quelle che riuscirono a ritagliarsi delle nicchie in spazi dove non era forte la competizione straniera, come la milanese Ercole Marelli che con la produzione di ventilatori, piccoli motori elettrici e accumulatori portatili riuscì in poco tempo ad accrescere le dimensioni industriali, spostando parte della produzione all’estero e aprendo uno stabilimento a Sesto san Giovanni.
FONTI: V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi / F. Amatori, A. Colli, Impresa e industria in Italia dall’Unità a oggi, Marsilio, Venezia/ V. Zamagni, Dalla periferia al centro: la seconda rinascita economia dell’Italia, 1861 – 1990, il Mulino, Bologna.