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Limiti Pil

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Submitted By Dome92
Words 1906
Pages 8
Relazione Economia per Managers
Il PIL è un buon indicatore di: dimensione economica di un paese, ricchezza, benessere, felicità, crescita?
Il PIL ha avuto indubbi meriti nel permettere, per lungo tempo, una gestione dell’economia che ne limitasse le oscillazioni e ne favorisse l’espansione, con benefici effetti per il benessere. Per questo, 20 o 30 anni fa, economisti, anche molto sensibili a concezioni non strettamente economiche del benessere, affermavano che "l’invenzione" del PIL era stato uno dei grandi contributi del secolo scorso alla conoscenza economica. Esso rappresentava, per i governi, una bussola della quale si era compresa l’importanza durante la Grande Depressione. Ma ora la crescita economica, intesa come produzione senza fine di merci, è un’idea ormai superata. Il PIL è un simulacro al quale sono attribuite proprietà che, per come è stato pensato, non gli possono appartenere e presenta quindi svariati limiti. Si può distinguere tra PIL Nominale e Reale. Il PIL Nominale misura il valore finale della produzione in un certo periodo ai prezzi di quel periodo (prezzi correnti), questo vuol dire che il valore della ricchezza di una determinata nazione in un determinato periodo risente dell’inflazione, cioè del fenomeno dell’aumento costante dei prezzi. Il PIL nominale non è un buon convertitore perché risente dell’inflazione. Il valore nominale del PIL in Europa attualmente è un 20% più alto rispetto al valore preso a parità dei poteri d’acquisto. Questo perché il mercato sopravvaluta l’euro rispetto al dollaro, ovvero perché il dato è influenzato dall’inflazione.
Il PIL Reale (o a parità dei poteri d’acquisto) esprime un valore reale della produzione dei beni sgravato dalla componente inflazionistica; misura la produzione di un Paese in termini di effettivo potere d’acquisto del paese stesso. Il PIL a parità dei poteri d’acquisto è quel valore che, a prescindere a quale paese si riferisca, viene espresso in dollari. Rappresenta quindi un buon indicatore di dimensione economica di un paese.
Non può però rappresentare una misura del benessere e della qualità della vita di una nazione (Kuznets, l’inventore del PIL, avvertiva che “il benessere di una nazione non può essere neanche approssimato da una misura del reddito nazionale” soprattutto quando l’economia è sviluppata e come “occorresse distinguere tra la quantità e la qualità della crescita, tra i suoi costi e ricavi della crescita, facendo attenzione alle conseguenza di lungo periodo. Gli obiettivi di maggior crescita devono specificare più crescita per chi e per cosa”). Cosa facilmente intuibile, se si pensa che è stato calcolato che quasi il 25% del PIL dei paesi sviluppati è destinato alla produzione di spazzatura e al trasporto (inquinante) di merci. Nonostante ciò, si è creduto a lungo che la crescita economica sia sempre buona e che bisogna far il possibile per aumentare il PIL: una sorta di mantra della crescita, si è diffuso una sorta di credo secondo cui la crescita è comunque buona. Non si considerano gli effetti della crescita sull’ambiente e nemmeno il fatto che gli ecosistemi ci forniscono a costo zero servizi che poi, con costi altissimi, tentiamo di ripristinare. Non si considera che questi servizi, essendo senza prezzo di mercato (cioè non scambiabili), non sono conteggiati nel PIL, vengono privati o ridotti fortemente alle generazioni future (e presenti). Questi servizi – regolazione del clima e dei gas atmosferici, decomposizione e assorbimento dei rifiuti, controllo delle piene, formazione dei suoli, impollinazione, ecc. – hanno un valore inestimabile e in nessun modo potrebbero essere sostituiti qualora fossero degradati o distrutti in modo irreversibile. Così guardiamo distratti alla perdita di biodiversità (la crescita esponenziale della popolazione e dei consumi stanno avvicinandoci ad un collasso ecologico che causa estinzioni a ritmi elevatissimi, estinzioni di massa a tassi 1000 volte superiori al “normale”), alla deforestazione e ai conseguenti effetti che provoca sui suoli (erosione, instabilità dei versanti, desertificazione, salinizzazione, ecc.), nell’atmosfera (sulla regolazione del clima alle varie scale) sulle comunità umane (migrazioni di massa a causa di desertificazione). A fronte di tutto ciò, è paradossale che si lavori poco meno di un secolo fa, mentre la produttività è aumentata di 20 volte.
Come anche affermato da M. Gallegati sul Sole24Ore qualche tempo fa, il PIL: si concentra solo sulla produzione, non include i beni prodotti in ambito domestico (Keynes affermava: “Se sposo la mia donna di sevizio il PIL cala”), non comprende attività di volontariato, non tiene conto della produzione derivante da attività illecite e più in generale dell’economia sommersa, trascura l’aspetto della qualità dei beni prodotti e il fatto che siano più o meno in grado di soddisfare i bisogni. Esistono quindi molti fattori che contribuiscono alla qualità della vita che non possono essere misurati in termini monetari.
Bisogna pertanto esplicitare la differenza sostanziale tra crescita economica e sviluppo economico: il primo deve essere inteso come aumento quantitativo del reddito, mentre il secondo evidenzia il mutamento qualitativo della vita. Recentemente sta crescendo l’interesse degli economisti per il benessere o felicità, non è solo il reddito che conta ma il livello di vita complessivo, e ci può essere discrepanza tra le due grandezze. Tutte queste ragioni possono portare al paradosso della felicità, ossia la crescita del reddito e del consumo non comportano un aumento della felicità, come rilevato da interviste e indicatori oggettivi, ma ad un aumento dei suicidi, uso di droghe e criminalità. Come già accennato in precedenza, la crescita a tutti i costi può portare a distruggere l’ambiente naturale ma non solo, anche i beni relazionali e la qualità della vita in senso ampio possono risentirne, ad esempio il consumismo negli USA può essere inteso come risposta patologica alla perdita di beni relazionali.
Dividendo il PIL reale per la popolazione si ottiene il reddito pro-capite, ossia il valore medio della ricchezza prodotta da ogni singolo individuo. Per decenni è stato riconosciuto universalmente come indicatore di ricchezza, ma anche in questo caso questo indice presenta molti limiti. Innanzi tutto ora è cambiata la maniera di intendere ricchezza. Nel 2012 è stata condotta un’analisi sulla base di una serie di aspetti che determinano la “ricchezza” nel suo insieme ovvero: il capitale naturale (risorse naturali, uso del suolo, ecosistemi, ecc.), il capitale produttivo (macchinari, edifici, ecc.), il capitale umano (educazione, salute, diritti umani, ecc.), il capitale sociale (istituzioni, reti sociali, ecc.). Vuol dire che l’aumento della ricchezza deve collegarsi ad una crescita sostenibile, una migliore qualità della vita e non solo al mero aspetto monetario. Ma anche se ci si riferisse solamente a quest’ultimo aspetto, il PIL non sempre sarebbe veritiero, specialmente nei paesi in via di sviluppo e in quelli arabi il PIL pro capite è falsato da soggetti con enormi quantitativi di ricchezza derivati dallo sfruttamento delle materie prime.
Anche Stiglitz ha affermato che la crescita deve essere sostenibile, sia a livello ambientale che sociale. Il dibattito in materia è intenso anche a livello istituzionale. A titolo di esempio, il 19 e 20 novembre 2007 si è tenuta a Bruxelles la conferenza internazionale “Beyond GDP” organizzata dalla Commissione europea, dal Parlamento Europeo, dall'OCSE e dal WWF. La conferenza ha richiamato leader politici, rappresentanti di governo ed esponenti di istituzioni chiave come la Banca Mondiale e le Nazioni unite con l'obiettivo di chiarire quali possano essere gli indicatori più appropriati per misurare il progresso.
Per ovviare a tali limiti sono state perseguite varie alternative a livello internazionale. Ad esempio il rapporto della commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi commissionato da Sarkozy nel febbraio del 2008, nel quale vengono ricordati i casi - spesso ben noti, come quello delle spese per riparare danni ambientali - in cui il PIL cresce e il benessere sociale, per quanto ampiamente inteso, di certo non aumenta. Inoltre, viene sottolineato che se si fosse prestata attenzione ad altri indicatori, in particolare a quelli di sostenibilità finanziaria, la crisi in corso avrebbe potuto essere, quanto meno, meglio governata; vengono presentate 12 raccomandazioni che dovrebbero condurre non tanto alla definizione di un indicatore sintetico alternativo al PIL quanto alla messa a punto di statistiche in grado di cogliere il benessere sociale nelle sue molte dimensioni.
Queste 12 raccomandazioni riguardano il benessere materiale e quello non materiale. Rispetto al primo si sottolinea la necessità di porre attenzione al reddito e al consumo, piuttosto che alla produzione, di considerare anche indici di ricchezza e di prendere a riferimento il nucleo familiare. Si ricorda l’influenza sul benessere della qualità dei beni e si pone particolare enfasi sulle disuguaglianze e sulla necessità di non limitarsi a considerare le grandezze medie, alle quali sono comunque da preferire quelle mediane. Si ricorda che il benessere dipende anche da attività che non danno luogo a scambi di mercato, come le prestazioni dirette tra soggetti e si raccomanda di misurare i servizi offerti dallo Stato in base non ai loro costi, come avviene con il PIL, ma al loro impatto sul benessere dei singoli. Riguardo alla dimensione non materiale del benessere si ricorda l’importanza del tempo libero (che, se incluso nell’indice di benessere, potrebbe annullare il vantaggio degli Stati Uniti su molti paesi europei in termini di PIL pro capite) e la necessità di misurare le relazioni sociali, la "voce" politica e la sicurezza o vulnerabilità dei singoli. Si afferma anche che vanno considerate misure oggettive e soggettive e che sono necessari indici di sostenibilità del benessere nel tempo.
Il principale indicatore proposto come alternativa al PIL che tiene conto delle principali critiche poste ad esso, è il Genuine Progress Indicator (GPI), in italiano "indicatore del progresso reale". Il GPI ha come obiettivo la misurazione dell'aumento della qualità della vita (che a volte è in contrasto con la crescita economica, che invece viene misurata dal PIL), e per raggiungere questo obiettivo distingue con pesi differenti tra spese positive (perché aumentano il benessere, come quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità, inquinamento, incidenti stradali).
Economisti non ortodossi invece, come Daly e Cobb, hanno proposto misure alternative, come l’indice di sviluppo sostenibile ISWE. Tecnicamente è un indice che del PIL usa il consumo personale aggiustato per varie misure del benessere, quali la distribuzione del reddito, l’inquinamento, le infrastrutture, il traffico ed il deterioramento del capitale naturale che ricadrà sulle spalle delle future generazioni. In tal modo gli indici del PIL e dell’ISEW possono divergere: il PIL potrebbe crescere a danno dell’ambiente, ad esempio, così tanto da far diminuire l’ISEW. Esistono varie applicazioni dell’indice di sviluppo e confronti col PIL.
Vi è poi il progetto BES, che si inquadra nel dibattito internazionale sul cosiddetto “superamento del PIL” ed è nato da un’iniziativa del CNEL e dell’Istat. L’obiettivo è quello di fornire un indicatore multidimensionale del benessere; il punto importante è che attraverso il Bes si può capire come il reddito prodotto venga distribuito, perché lo stesso incremento di PIL, se distribuito in modo diseguale, ha effetti sociali ed economici diversi. Ci sono degli studi che mostrano come l'economia italiana, rispetto ad esempio a Francia e Germania, ha una struttura distributiva più polarizzata, dove ci sono più distanze tra redditi alti e redditi bassi, elementi molto rilevanti di cui occorre tenere conto.
L’obbiettivo primario di questi indici è accrescere la disponibilità di dati e di statistiche di qualità su dimensioni rilevanti del benessere sociale (e sulla sua sostenibilità) allo scopo di permettere anche ai politici di prendere scelte più meditate (ovviamente se lo vorranno), ai media di informare meglio i propri lettori e a questi ultimi di fare pesare le proprie informazioni maggiormente nella scelta politica. Sfortunatamente il "superamento" del PIL, se così vogliamo chiamarlo, non genera automaticamente politiche "migliori". Però può offrire loro una nuova, grande opportunità.

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