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Storia E Affermazione Dell’e-Commerce

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Storia e affermazione dell’e-commerce
Storia e affermazione dell’e-commerce

Sommario. 1. Origine storica ed affermazione del commercio elettronico – 2. Lex mercatoria e lex informatica – a. L’origine e il significato della lex mercatoria – b. La nuova lex mercatoria – c. La lex informatica – 3. L’e-commerce e la sua rilevanza nel mondo economico e giuridico

1. Origine storica ed affermazione del commercio elettronico
La rivoluzione telematica che si è realizzata nella seconda metà del XX secolo ha cambiato il nostro modo di vivere: l’utilizzo del computer e delle altre tecnologie che ne sono derivate, infatti, ha reso possibile compiere, in tempi e modi impensabili, le più svariate attività tra cui quella di poter concludere un contratto di vendita ovunque ci si trovi grazie alla connessione Internet e con qualsiasi tipo di dispositivo. L’utilizzo della Rete come strumento economico-commerciale è, tuttavia, un fenomeno relativamente recente. Internet nasce alla fine degli anni ’60 e si sviluppa rapidamente, dapprima come strumento di comunicazione scientifica e successivamente di interscambio personale per poi divenire, negli anni ’90, supporto essenziale per l’affermazione dell’e-commerce, ossia il commercio elettronico. Quest’ultima espressione, apparentemente sfuggente, prima di addentrarsi in qualsiasi argomentazione sia essa storica, economica o giuridica, necessita, però, di essere “materializzata” perché –¬ pur trattandosi di una definizione che scaturisce dal mondo economico al fine di indicare gli scambi di beni e di servizi – è connotata dal realizzarsi degli stessi in ambiente “virtuale”. L’ “E-commerce” è stato infatti definito come «l’uso del computer connesso alla Rete al fine di concludere affari commerciali, quali l’acquisto o la vendita di beni, servizi e informazioni con fornitori, concorrenti, consumatori e questi ultimi tra di loro» . Tale definizione non è tuttavia l’unica essendo possibile individuarne ulteriori tra cui quella data dall’OCSE nell’atto OCDE/GD(97) 185, “Measuring Eletronic Commerce”, dove si considera commercio elettronico «ogni transazione commerciale avente luogo su reti aperte, quale è la Rete Internet». Si esprime così anche l’ISEC (Istituto per lo Sviluppo del Commercio Elettronico) secondo cui l’e-commerce è costituito da «ogni iniziativa di tipo commerciale che viene svolta utilizzando la Rete Internet».
Di analogo tenore è la proposta dell’Associazione Italiana Internet Providers secondo cui «Il commercio elettronico è l’attività di compravendita di beni e servizi svolta completamente o in parte attraverso la Rete» ma è evidente che, se così fosse, il commercio elettronico sarebbe limitato alle sole reti aperte quali Internet: nel caso in cui cliente e negoziante stabilissero una connessione diretta per commerciare tramite i propri computer creando una rete “chiusa”, così come peraltro il sistema operava ai suoi albori e di cui si farà cenno più in seguito, le definizioni più restrittive sopra riportate potrebbero essere aggirate.
Più opportuno, quindi, sarebbe considerare la definizione “commercio elettronico” come un termine ampio, comprensivo «dell’impiego di reti di computer Internet e non Internet per operare una crescente varietà di transazioni, dall’electronic data interchange […] ai sistemi di pagamento elettronico, alle carte di credito, e più recentemente alla vendita al consumatore di beni e servizi», anche se non può non prendersi atto che tale termine viene ormai sempre più identificato con il solo commercio attraverso Internet rispetto al quale, indubbiamente, altri sistemi di commercio elettronico, quali EDI ed EFT , appaiono ormai obsoleti.
L’e-commerce ha, infatti, il suo progenitore nell’Electronic Data Interchange (EDI), sistema che nei primi anni ’70 rese possibile il trasferimento di informazioni e documenti commerciali in formato elettronico, diffusosi inizialmente tra le imprese di trasporto e successivamente nei settori industriali in cui elevati erano i volumi delle scorte.
I venditori al dettaglio, in particolare, con tale sistema avevano sotto controllo i propri magazzini e potevano tempestivamente approvvigionarsi raggiungendo i fornitori nei loro database. Era certamente una soluzione vantaggiosa ma anche costosa essendo l’EDI supportato, all’epoca, dalle ordinarie reti di telecomunicazione con conseguente necessità di dedicare una apposita linea di connessione tra i partner della transazione: a ciò si aggiunga che, sovente, i database utilizzati dalle aziende erano diversi e, conseguentemente, le modifiche da apportare onerose. Un’ulteriore difficoltà per i suoi fruitori era data dalla impossibilità di interagire nel sistema: venditore e compratore non potevano negoziare sul prezzo della merce ma solo accettare i termini dati dalla transazione. Trattavasi, come evidente, di svantaggi affrontabili solo dalle grandi imprese, certamente superati dall’ingresso di Internet che, si può dire, è tutto ciò che EDI non era: conveniente, facile da usare, globale e accessibile.
È con l’avvento del Web, infatti, che l’e-commerce si afferma come tale e, cioè, come attività di business to business e in Italia è del febbraio 1996 il comunicato stampa della Olivetti Telemedia con cui si annunciava l’apertura sul Cybermercato del primo negozio virtuale italiano, tra i primi in Europa. All’indirizzo www.mercato.it (dominio oggi non appartenente più a Olivetti) potevano essere acquistati libri, computer, articoli da regalo e altro ancora e a tale iniziativa partecipavano case editrici quali Franco Maria Ricci e aziende quali La Rinascente, Apple e, non ultima, la Olivetti stessa.
Nel 1999 vi fu una vera e propria esplosione delle Dot-com (società di servizi che sviluppano il loro business grazie a Internet attraverso la creazione del proprio sito web, utilizzando il dominio di primo livello .com, da cui prendono il nome). Molte aziende europee si affrettarono per avviare un’attività su Internet ma ci si rese subito conto che non era facile competere nell’e-commerce: già nel 2000, secondo la Webmergers, una compagnia che si occupa di fusioni e acquisizioni, più di cento società avevano chiuso i loro negozi virtuali perché non avevano prodotto profitti. Si ritenne, nel corso del primo anno, che l’e-commerce fosse finito ancor prima di affermarsi ma fu poi evidente che tali risultati negativi erano scaturiti esclusivamente dall’inesperienza di quella prima generazione di società che, prive di qualsiasi background, avevano mirato soprattutto a ottenere profitti il più velocemente possibile.
Con il passare del tempo si prese invece atto che con l’avvento di Internet era completamente cambiato il modo di fare business per cui solo chi sapeva innovare la propria tecnologia, dotandosi di una struttura flessibile ai continui cambiamenti della rete, avrebbe potuto consolidare le proprie posizioni in un mercato che ha ormai, all’attualità, raggiunto il miliardo di acquirenti a fronte di due miliardi di persone che navigano su Internet per un business globale pari a circa mille miliardi di euro.
Significativa per l’e-commerce è, infatti, la fidelizzazione al sistema e la tensione a una percentuale di soddisfazione della clientela medio-alta, obiettivi sicuramente favoriti dal ruolo sempre più importante che nell’acquisto stanno ormai svolgendo gli strumenti di mobilità quali smartphone e tablet e quello via via assunto dai social media. Il rapporto venditore-cliente è infatti mutato nel tempo e se prima era orientato alla sola vendita, oggi è rivolto all’ingaggio, alla condivisione e alla reputazione: il social non è più soltanto una piattaforma per vendere ma accompagna il cliente verso una marca, nel corso e dopo l’acquisto, relazione che certamente è impossibile per i canali commerciali tradizionali. Tale filosofia, tuttavia, in Italia stenta ancora ad affermarsi e ciò sia perché le piattaforme social, da Facebook a Google+, sono diverse e funzionano con modelli diversi, sia perché la fruizione dei vari servizi da loro offerti è sempre più costoso e oneroso per imprese – come quelle nazionali – affette da nanismo e non ancora aperte a una cultura mediale di ampio respiro.
È innegabile, infatti, che affinché un’attività di commercio elettronico abbia successo siano necessari alcuni fattori chiave tra cui l’offerta di un prodotto o un assortimento in grado di attirare clienti potenziali a un prezzo competitivo, un’esperienza di acquisto con un alto livello informativo, la realizzazione di un sito Internet accattivante, l’incentivazione del cliente all’acquisto e la sua successiva fidelizzazione (buoni sconto, offerte speciali e varie tipologie di sconto), la creazione di un rapporto personalizzato con la clientela, l’organizzazione di un senso di comunità tra i visitatori, la garanzia di affidabilità e sicurezza (server in parallelo, ridondanza hardware, tecnologia a prova di errore, crittografia dei dati e firewall), lo snellimento dei processi di business, se possibile attraverso un reengineering e il ricorso all'information technology, la realizzazione di un sito facile da utilizzare (tipo self-service), l’assistenza ai clienti nella loro attività di consumatori. Il tutto progettando una filiera informatica, generalista o specializzata, provvedendo a un costante aggiornamento delle soluzioni tecnologiche adottate sul sito e realizzando un’organizzazione in grado di rispondere agilmente e prontamente ai mutamenti che avverranno in ambito economico, sociale e fisico della società in cui si opera.
Tutto ciò non esclude, tuttavia, che difficoltà possano comunque insorgere essendo sempre possibile che il comportamento della clientela, nelle sue scelte di acquisto, risulti incomprensibile, che non risulti chiaro lo scenario concorrenziale, che non si sia in grado di prevedere le reazioni nell'ambiente in cui opera l'impresa, che si abbia una sovrastima delle competenze aziendali, che siano sottovalutati i tempi richiesti per il raggiungimento degli obiettivi.
La globalità, le dimensioni, la velocità nell’innovazione di tale settore di mercato, con tutte le difficoltà che lo stesso pone, rende quindi di macroscopica evidenza la necessità di una normativa adeguata quale non è, invece, quella europea (per non parlare di quella nazionale), sempre anticipata dagli operatori dell’e-commerce: in Italia, ad esempio, è stato introdotto dal Consorzio del Commercio Elettronico Italiano, e non dal legislatore, il Sigillo Netcomm, garanzia di qualità e serietà del sito che vende, in cui i cd. merchant si impegnano ad offrire un servizio facile, conveniente e sicuro ai consumatori finali al fine di migliorare la loro esperienza di shopping online in modo da incentivare l’utilizzo di tale strumento.

2. Lex mercatoria e lex informatica
a. L’origine e il significato della lex mercatoria

I mercanti che commerciavano in tutta Europa, durante il Medioevo, necessitavano di regole comuni, di un diritto “universale” destinato a regolare i rapporti tra gli stessi indipendentemente dalla nazionalità e dal luogo in cui operavano essendo evidente che le regole sancite dallo ius commune e dal diritto canonico non fossero più in grado di rispondere in modo adeguato alle nuove esigenze dei traffici commerciali. In modo del tutto spontaneo, quindi, il ceto mercantile (mercatores) creò il proprio diritto costituito dagli usi e costumi che si erano stabilizzati nella prassi negoziale.
Si ebbe così un corpo di regole, indipendente dalle leggi territoriali e definito “lex mercatoria”, che garantiva che i traffici potessero svolgersi secondo i principi di correttezza operanti non solo nell’ambito del diritto sostanziale ma anche in sede processuale prevedendosi che, in caso di violazioni, l’accertamento delle stesse fosse affidato a tribunali speciali, composti da mercanti, con proprie regole procedurali.
Si deve però tenere presente che l’espressione “lex mercatoria” non è sempre stata utilizzata in maniera univoca tant’è che, a tale espressione, sono stati ricollegati tre distinti e possibili significati:
1) un insieme di regole e principi, cd. “legal mass”, che peccano di sistematicità;
2) l’insieme degli usi che si sono diffusi nelle pratiche commerciali;
3) un sistema giuridico sovranazionale, che si giustificherebbe in virtù della sua stessa esistenza ovvero sarebbe un sistema autopoietico.
La lex mercatoria è stata inserita, se si guarda alla teoria delle fonti, nella categoria della consuetudine, nel diritto corporativo oppure nei cosiddetti contracts sans loi ma la sua peculiarità va proprio ravvisata nell’essere espressione di un diritto valido anche se creato da soggetti privati e, quindi, al di fuori del controllo del potere di turno - che poteva incarnarsi di volta in volta nello Stato o nella Chiesa – e alle cui sanzioni comunque si sottraeva, prescindendo dalla legittimazione che al diritto viene attribuita allorquando sia espressione di un processo democratico.

b. La nuova lex mercatoria

Lo ius mercatorum, dal Medioevo a oggi, non è mai venuto meno in quanto grazie alle sue caratteristiche di universalità e specialità è riuscito ad adattarsi alle mutevoli esigenze del mondo economico proprio perché si basa sulle prassi commerciali che vengono di volta in volta in uso.
Un autorevole autore quale Francesco Galgano ha definito la nuova lex mercatoria come «un diritto creato dal ceto imprenditoriale, senza la mediazione del potere legislativo degli Stati, e formato da regole destinate a disciplinare in modo uniforme, al di là delle unità politiche degli Stati, i rapporti commerciali che si instaurano entro l’unità economica dei mercati».
Si deve però notare che, con l’affermazione del potere degli Stati, la disciplina dei rapporti economici è ormai ampiamente dettata dalla legge nazionale, avendo ormai gli usi perso buona parte della loro forza di fonte normativa: a riprova di ciò basta leggere quanto disposto dall'art. 1 disp. prel. c.c. che attribuisce valore di fonte primaria del diritto alle leggi rispetto alle quali gli usi, previsti in un ordine di carattere tassativo al n. 4, hanno con chiara evidenza una valore meramente residuale.
Nel corso degli anni si è poi preso atto di quanto fosse necessario che la lex mercatoria si affermasse a livello internazionale: le esigenze operative dell’economia si impongono ormai su scala globale e richiedono, di continuo, nuovi modelli di accordo e nuove forme giuridiche non ravvisandosi una corrispondenza piena nei contratti tipici previsti dai legislatori nazionali. Del resto, come saggiamente evidenziato da Matteo Rescigno , «nell’economia globale e soprattutto nelle relazioni internazionali, la norma è sempre, inevitabilmente, destinata a una vana rincorsa. Il contratto, la prassi, l’uso chiedono, a mezzo dei loro creatori, di essere regola autonoma del rapporto al quale si riferiscono: di essere, appunto, il diritto dei mercanti».

c. La lex informatica

La lex mercatoria è stata richiamata dai giuristi che si sono occupati delle problematiche riguardanti Internet e le attività commerciali svolte tramite tale mezzo.
Come notato in passato da autorevole dottrina , lo spazio telematico è un non-luogo, uno spazio indefinito – che viene comunemente detto “cyberspazio” – in cui non esistono barriere geografiche né fisiche tant’è che proprio questa mancanza dell’attraversamento di frontiere territoriali, secondo alcuni autori , fa sì che le regole applicate quotidianamente nel mondo reale perdano la loro efficacia. È proprio tale tesi, peraltro, che ha ritenuto valida l’applicazione analogica – in riferimento al fenomeno dell’autoregolazione – tra quanto avviene nel World Wide Web e quanto avveniva nel Medioevo con la creazione della lex mercatoria: secondo questa teoria, infatti, la governance del cyberspazio sarebbe tutta affidata all’autoregolamentazione, a norme autonome, autoctone e facilmente conoscibili dalla massa degli utenti in quanto creatori delle stesse.
È stata poi la dottrina nordamericana che, su tali basi, ha introdotto il concetto di “lex informatica” intendendo con tale definizione riferirsi al fatto che i sistemi informatici, per la loro struttura, impongono dei comportamenti agli utenti, così divenendo fonte di “rulemaking”. Per Reidenberg, creatore di questa teoria, la lex informatica assurge al ruolo di metodo di soluzione dei vari problemi giuridici posti dall’avanzare delle tecniche informatiche e, soprattutto, di strumento mediante il quale poter risolvere i problemi di armonizzazione del diritto nell’intero settore giovandosi, peraltro, del fatto di non essere collegata a un sistema giuridico statuale.
Alcuni dei sostenitori della lex informatica hanno peraltro ritenuto che «The possibility of regulation through code in cyberspace is far greater than the possibility of regulation through code in real space. And the possibility of regulation through law in cyberspace is far less than in real space».
La lex informatica si affiancherebbe, quindi, alle regole dettate dal legislatore formando un sistema parallelo, così come chiarito poi da G. Finocchiaro, secondo cui «le regole tecniche possono costituire un’implementazione diretta di quanto dettato dal legislatore, escludendo certe opzioni, o un’implementazione indiretta, richiedendo agli utenti di non compiere certi atti».
Al fine però di evitare fraintendimenti appare opportuno precisare che, nonostante la richiamata analogia, lex informatica e lex mercatoria non sono fra loro sovrapponibili ponendosi, invece, in un rapporto che potrebbe essere definito di genus a species in quanto mentre la prima è destinata ad essere applicata a ogni tipo di relazione, la lex mercatoria trova la sua applicazione ai rapporti fra imprese.
In ragione di quanto sin qui riportato, appare evidente che lex mercatoria e lex informatica nel fenomeno del commercio elettronico si intrecciano di continuo e ciò anche perché, al fine di soddisfare le esigenze del commercio globale, si sono sempre più diffuse pratiche contrattuali uniformi fondate sull’oggettivazione dello scambio e sulla fruizione di norme imposte dagli strumenti tecnologici.
Di certo, come già evidenziato in precedenza, gli strumenti di diritto positivo appaiono del tutto inadeguati a fare fronte a tali nuove esigenze e i legislatori sono costretti a rincorrere le nuove sfide giuridiche che l’innovazione tecnologica comporta: per contro, peraltro, nonostante la tecnica crei autonomamente le sue regole, queste non possono essere di per sé esaustive e soprattutto offrire la sempre più impellente esigenza di uniformità in quello che viene ormai definito “il diritto della globalizzazione”.

3. L’e-commerce e la sua rilevanza nel mondo economico e giuridico
L’information and communication technology (ICT), come indicato in precedenza, ha modificato e innovato lo svolgimento dei rapporti intersoggettivi con profonde ripercussioni sui profili giuridici degli stessi. Il fenomeno dei contratti online, ampiamente diffuso in ambito internazionale, non è stato però seriamente affrontato dalla normativa nazionale che non risulta abbia tenuto in debito conto le peculiarità che lo connotano e le numerose problematiche che allo stesso afferiscono quali, ad esempio, il tempo e il luogo di conclusione del contratto, temi questi che sono tuttora dibattuti.
Diversi, nel corso di circa quindici anni, sono stati gli interventi del nostro legislatore nell’affannoso tentativo di apportare al dettato legislativo modifiche che ci consentissero di stare al passo con le continue novità informatiche, disciplinando adeguatamente i rapporti interpersonali che ne scaturivano: tale attività legislativa si è però risolta in una totale frammentarietà delle disposizioni normative che, di conseguenza, peccano spesso di chiarezza e di sistematicità.
Il consumatore, con il commercio elettronico, si trova davanti a una esposizione vastissima di beni e servizi che, anche grazie all’utilizzo di cookie, tiene conto dei gusti e delle preferenze degli internauti: facendo ricorso a Internet è infatti possibile acquistare, con facilità, prodotti che non appartengono ai mercati “locali” e ciò consente di poter definire addirittura come del tutto “ordinarie” transazioni tra soggetti situati in Stati diversi. Tutto ciò, come è ovvio, funge da costante sollecitazione per tutti gli ordinamenti giuridici, sia a livello nazionale che ultranazionale, affinché si rendano consapevoli della necessità di fronteggiare dal punto di vista normativo l’impatto delle innovazioni tecnologiche sul tessuto sociale ed economico del proprio territorio, dando risposte tempestive ai numerosi problemi che i continui aggiornamenti pongono al fine di preservare un corretto utilizzo di tale strumento contrattuale.
In effetti proprio la rilevanza economica che il commercio elettronico sta assumendo ha indotto autorevole dottrina a sostenere come questo fenomeno sia ormai al contempo prodotto e fonte della globalizzazione, evidenziandosi che sebbene esso rientri più nelle categorie economiche che in quelle giuridiche, è sicuramente innegabile che si sia imposto su queste ultime, dimostrando ancora una volta come la prassi economica si renda produttrice di diritto.
La Commissione europea invero, intuendo la rilevanza di tale fenomeno, già nel 1996 – con la comunicazione del 27 novembre, COM(96) 607 def. – aveva sottolineato l’importanza del commercio elettronico e la necessità di avviare un processo di armonizzazione su diversi fronti al fine di favorire e incentivare il mercato, regolamentando tale novità.
Un’indicazione tangibile dell’enormità del fenomeno si evince dai dati più recenti: nel 2012, infatti, nel solo mercato europeo l’e-commerce ha raggiunto un valore complessivo di oltre 305 miliardi di euro, con una crescita del 22% sul 2011 (254 miliardi), mentre nel 2013 le vendite online hanno raggiunto un fatturato di 352 miliardi di euro. L’Europa poi si impone, di fatto, come il mercato online più importante del globo visto che le stime presentate dall’EMOTA (European Multichannel and Online Trade Association) all’International Ecommerce Forum 2014, tenutosi a Barcellona, hanno indicato che il mercato nordamericano si assesta sui 318 miliardi di fatturato mentre l’Asia Pacifica raggiunge i 338 miliardi. Figura 1 – Profitto dell’e-commerce per regioni

Gli stati membri dell’Unione che utilizzano maggiormente l’e-commerce sono il Regno Unito, la Francia e la Germania, paesi in cui vengono effettuati il 60% di tutti gli acquisti online. Figura 2 – Profitti dei Paesi europei derivanti dall’e-commerce in miliardi di €

Nel nostro Paese però l’e-commerce, nonostante i numeri di particolare rilievo raggiunti a livello economico e sebbene l’Italia sia indicata da alcuni osservatori tra gli Stati con un maggiore potenziale di crescita, stenta ancora – come si può vedere dalle stime riportate nel grafico – ad essere uno strumento di massa e ad ottenere la fiducia di tutti i potenziali destinatari e utilizzatori delle attività economiche che vengono svolte online: infatti, sebbene quasi nove utenti su dieci si informino online su prodotti e marchi, solo tre su dieci (il 34 per cento) procedono all’acquisto del prodotto individuato. Figura 3 – Il confronto con i principali mercati internazionali

Tale ridotta percentuale, come evidenziato nel corso dell’Ecommerce Forum 2013, stenta ad aumentare perché, nonostante gli italiani stiano dimostrando di mese in mese di riporre più fiducia negli acquisti online, restano ancora presenti le cd. barriere all’acquisto quali il desiderio di pagare in contanti, la scarsa fiducia nei pagamenti online e le modalità di recesso complicate. Forte limite al progresso dell’e-commerce nel nostro paese è peraltro dato dal ritardo con cui l’Italia si sta convertendo all’uso della moneta elettronica (peggio dell’Italia Grecia e Polonia), giustificato solo in parte dal timore dei furti e molto di più, invece, dalla volontà di non essere identificati: gli italiani preferiscono, infatti, PayPal e carte ricaricabili che, come è noto, non richiedono l’inserimento online dei dati anagrafici.
Si deve peraltro notare che l’Italia ha un saldo commerciale sul canale digitale ancora sfavorevole in quanto importa più merci di quante ne esporti, con prevalenza del commercio transfrontaliero: del resto, il panorama dei settori merceologici che in Italia ricevono un maggiore riscontro online è ancora limitato, risultando che l’acquirente nazionale si rivolge all’e-commerce soprattutto nell’ambito del turismo, delle assicurazioni, dell’informatica e dell’editoria, con significativa affermazione dell’abbigliamento nell’ambito degli acquisti fisici.
Si deve tener presente inoltre che generalmente gli acquisti online sono di tipo “domestico”, ovvero conclusi tra soggetti di uno stesso Stato, mentre molto meno frequenti sono i contratti di vendita cd. cross-border o transfrontalieri: il numero ridotto di tali ultimi contratti è sicuramente l’effetto di timori, ulteriori e diversi rispetto a quelli prima evidenziati, tra cui sicuramente prevalgono l’incertezza sul diritto, il rischio di frodi, i costi maggiori per le spedizioni, forti dubbi sul fatto che i beni acquistati arrivino a destinazione, i lunghi tempi di attesa per la consegna. Figura 4 – Timori riguardanti gli acquisti di tipo cross-border rispetto a quelli domestici

L’EMOTA ha tuttavia previsto che, nonostante queste problematiche, ci sarà comunque un incremento nelle vendite di tipo cross border valutato, nell’arco temporale 2013-2018, pari al 21%. Figura 5 – Acquisti interni rispetto ad acquisti cross-border

Figura 6 – Previsioni di mercato dell’e-commerce europeo

L’implementazione e l’incentivazione di tale andamento positivo sono state, in effetti, le ragioni che hanno indotto l’Unione europea ad intervenire: si è infatti ritenuto che disciplinare siffatta materia con una serie di regole omogenee, sottese a garantire la certezza del diritto e favorire l'economia e gli scambi tra Stati membri, non possa che favorirli.