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Il Consolidamento Democratico in America Latina: Storia E Prospettive.

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Giovanni Zanoletti

Il consolidamento democratico in America Latina: storia e prospettive.

Il processo di formazione di regimi indipendenti e democratici in America Latina, iniziato con le lotte per l’affrancamento dalla dominazione coloniale verso la fine degli anni ’10 del XIX sec., è sempre stato caratterizzato da alcuni elementi culturali e sociali che si sono mantenuti costanti durante questi due secoli di storia, in parte comuni alle varie entità statali di cui il sub-continente si compone e in parte peculiari, a seconda dell’epoca e dal tipo di colonizzazione. Certo è che questi caratteri hanno giocato un importante ruolo nella difficoltà di affermazione dei caratteri dello stato democratico nelle varie realtà territoriali, giungendo a un certo grado di diffusione delle procedure democratiche solamente verso l’inizio degli anni novanta.
Considerando la storia dell’America Latina, quello di fronte a cui ci troviamo è quasi un secolo e mezzo di “volatilità istituzionale”: è infatti possibile riscontrare più o meno in ogni parte della regione frequenti cambi di regime, avvenuti tramite golpe e rivoluzioni, l’affermazione di dittature e il loro rovesciamento, elezioni democratiche e plebisciti. Solo a partire dagli anni ’90 sembra che la situazione politica si sia stabilizzata verso un indirizzo di governo democratico più o meno ovunque, anche se alcune eccezioni rimangono. Definito il quadro d’insieme, è interessante analizzare quali elementi componevano il substrato socio-culturale che ha influenzato in maniera significativa la storia politica del continente e che ne ha indirizzato i mutamenti: è infatti impossibile prescindere da un’analisi di questo tipo se si vuole approfondire il problema della difficoltà del consolidamento del processo democratico in America Latina, che solo ora sembra in via di affermazione. Da questo punto di vista, l’ultimo decennio ha segnato profondamente la realtà latina, portando alla ribalta nuovi attori in grado in pochi anni di disegnarsi un ruolo di primo piano a livello regionale: quali equilibri egemonici questa rincorsa ha rotto, e quali di nuovi ne ha creato, è ciò che questo scritto si propone di trovare.
Per provare a definire gli elementi della cultura politica dell’America Latina è utile considerare il paradigma di Emilio Alvarez Montalban, autore di un modello descrittivo della cultura politica sud americana che pone in rilievo elementi meta sociali a cui sono subordinati il diritto e le costituzioni. Lo studio di Montalban riprende infatti i caratteri del modello coloniale spagnolo e portoghese così differente dalla penetrazione anglosassone nel nord del continente, in cui ritroviamo i caratteri che andranno a formare il substrato della cultura politica del continente. La prima distinzione che è possibile individuare è fra la componente europea e aristocratica e la componente indigena: in un primo momento a colonizzare i territori d’oltremare furono componenti dell’aristocrazia iberica, che trapiantarono nel Nuovo Mondo le strutture tipiche della società da cui provenivano; si parla in questo senso di ser colonial, dove il verbo essere sottolinea il bagaglio culturale e di Weltanschaung che lo caratterizza intrinsecamente. E’ dunque possibile valutare il ser colonial tramite alcuni atteggiamenti di fondo come il patrimonialismo, cioè la gestione della cosa pubblica come fosse un proprio possedimento personale (estado botìn), il personalismo, l’adesione non ad un ideale astratto o a un programma politico ma il legame con chi lo rappresenta, creando così un vincolo di tipo personale e non “politico”; un'altra caratteristica fondamentale è il familismo, cioè la tendenza a creare una vera propria rete di famiglie eminenti attraverso matrimoni che spesso certificavano affari, con pregiudizi di esclusione socio-razziale verso chi non possedeva la cosiddetta purezza di sangue, cioè non apparteneva all’insieme delle famiglie dell’antica aristocrazia castigliana o portoghese. Un ruolo fondamentale lo giocano anche la tendenza all’autoritarismo e al centralismo, cioè ad interpretare il concetto di governo come un’attività verticalizzata e accentrata, in cui il centro controlla la periferia senza alcuna delega al potere locale e nessun tipo di pluralismo. L’altro importante bagaglio culturale è quello di derivazione india, il cosiddetto ser indigena, altrettanto fondamentale nel formare la cultura politica del continente. Un aspetto di primaria importanza è senza dubbio l’influenza delle pratiche religiose (il sentido magico de la vida) che si associa con un approccio fatalista: la rassegnazione e la convinzione che nessuna azione umana può cambiare il destino, foriera così di un approccio passivo alla vita. Un altro elemento di derivazione religiosa è il caciquismo: il cacique, termine pre-colombiano, sta ad indicare chi in un determinato villaggio è depositario di una carisma particolare, e spesso viene associato a figure religiose; il caciquismo è quindi la tendenza a individuare in queste figure punti di riferimento politici e sociali, svuotando così le procedure di rappresentanza del loro significato. Il cortoplacismo rappresenta infine l’aspettativa di risultati immediati da parte di queste popolazioni (a corto plazo, a breve termine), e la conseguente mancanza di percezione della progressione di qualunque tipo, privilegiando il presente (aqui y ahora).
E’ dunque dalla fusione di queste due culture che prende forma l’identità culturale latino-americana, il ser mestizo, che si caratterizza per il paternalismo diffuso, e l’amiguismo, l’arreglismo e l’elitismo, tre concetti fortemente legati tra loro: era infatti prassi diffusa la formazione di gruppi d’interesse/lobby in cui i membri si scambiavano favori (amiguismo) e prendevano decisioni su questioni pubbliche al di fuori dei contesti ufficiali (arreglismo), dando origine così a élite chiuse e autolegittimatesi nella gestione di parti della cosa pubblica.
Nel quadro composto da questi aspetti culturali si inserisce il modello produttivo fondato sull’hacienda, la grande proprietà terriera di origine coloniale nonché primigenia cellula politica e sociale. La struttura dell’hacienda infatti rappresenta una sorta di microcosmo in cui sono rappresentati i principali caratteri della società latinoamericana, a partire dalla struttura piramidale che vedeva al proprio apice il patron, di origine iberica e spesso aristocratica, con la sua famiglia, e alle sue dipendenze una pletora di peones detiti al lavoro agricolo e al servizio nella casa del patron. Tra questi due livelli si situa il mayordomo, scelto tramite cooptazione dal patron tra i peones per la lealtà: è chiaro che un meccanismo di questo tipo comporta una competizione fra i peones per conquistarsi la fiducia del patron, eliminando qualunque tipo di solidarietà orizzontale. Inoltre questa struttura di produzione rimane fortemente ancorata ad un tipo di economia pre-capitalista: le merci prodotte vengono in parte consumate e in parte vendute, ma non per generare profitto da reinvestire per rendere l’attività maggiormente produttiva; non c’è il tentativo di attrarre investimenti, né di accumulare capitale, la terra rappresenta uno status socio-politico, da cui trarre i proventi necessari per mantenere un elevato stile di vita. In questo panorama composto da haciendas di varie dimensioni, la centralità politica ed economica è concentrata nelle campagne con l’agricoltura come attività economica largamente prevalente, convivendo con città di piccole dimensioni e sostanzialmente prive di attività industriali: manca la distinzione fra pubblico e privato, spesso coincidendo le elite con incarichi politici e i principali possidenti terrieri, creando così una commistione inestricabile fra interessi pubblici e privati. Uno dei risultati politici, come poi si vedrà, che deriva da questo insieme di pulsioni è il caudillismo: era infatti prassi comune per le famiglie di possidenti delegare la difesa dei propri interessi e possedimenti a un leader con alle proprie dipendenze un esercito a lui legato da vincoli personali, figura che diventerà di primo piano nei processi di indipendenza, spesso influenzando la stesura dei confini secondo i possidenti delle famiglie.
La svolta per le colonie spagnole e portoghesi viene unanimemente ricondotta al 9 dicembre 1924, data della battaglia di Ayacucho: le forze indipendentiste del Perù, della Grande Colombia, del Cile e delle Province Unite del Rio de la Plata sconfissero definitivamente il Viceré del Perù, supportato da contingenti spagnoli e indigeni; così anche l’ultima forma di dominio politico iberico scomparve dall’America Latina. L’indipendenza dalla madrepatria non si legò però ad una diffusione dei processi democratici, né alla distribuzione della ricchezza, stante la struttura sociale esistente che si mantenne largamente inalterata: gli sforzi di condottieri e politici come Bolivar per evitare la frammentazione politica e le lotte intestine furono pressoché inutili, nulla potendo contro le spinte centrifughe che provenivano dai territori e dalle città; sciolto il patto con il sovrano, ogni territorialità di qualche peso reclamò la propria autonomia. La Confederazione Centroamericana si sciolse nel 1840, la Grande Colombia nel 1830, mentre il Vicereame del Perù perse Cile e Bolivia, e le Province Unite Paraguay e Uruguay; ciascuna di queste entità politiche si ritrovò a essere governata da caudillos, la cui autorità si fondava su ampie reti clientelari, a cui veniva assicurata protezione in cambio di lealtà e prebende, esercitando il proprio potere in forma arbitraria e personale. Spesso i confini dei nuovi stati erano infatti basati sull’estensione del potere dei caudillos locali, minacciati nella loro libertà di esercizio del potere da entità politiche più ampie. Nulla quindi si vide cambiare dal punto di vista della democratizzazione e della gestione della cosa pubblica, mantenendo così tendenzialmente intatto l’ordine sociale precedente.
Ciò che portò all’affermazione di stati nazione finalmente avviati sul cammino della modernità fu lo sviluppo del commercio con gli stati europei e gli Stati Uniti: approfittando delle nuove tecnologie che permettevano una maggiore frequenza dei viaggi trans-atlantici e una minore durata degli stessi, nonché della fine del monopolio spagnolo sui commerci che strozzavano la produzione, verso la metà del secolo cominciò un processo di progressiva compenetrazione tra l’America Latina e le principali economie mondiali, specie quella britannica. Questo sconvolgimento politico comportò un radicale cambiamento anche per quanto riguarda la sfera economica, in quanto al modello dell’haciendado, dominato dall’aristocrazia di origine europea e dai forti legami culturali con la madrepatria, si sostituirono piantagioni più produttive ed efficienti gestite dalla cosiddetta “oligarchia modernizzante”, una classe sociale autoctona, creola, che intravide l’occasione di occupare lo spazio sociale e politico lasciato dal precedente regime coloniale ormai scomparso. L’economia dell’America Latina di questi anni viene in questo senso definita economia del postre (dessert), inserendosi nella più ampia categoria del modello primario-esportatore: i prodotti venduti all’estero erano infatti materie prime, e per quanto riguarda l’agricoltura frutta, caffè, canna da zucchero e tabacco, non indispensabili e maggiormente influenzati dalle oscillazioni di mercato. Basti pensare che il Brasile da solo arrivò a controllare gran parte della produzione mondiale di caffè, esponendosi così alle oscillazioni del mercato. Le materie prime venivano poi lavorate nei paesi occidentali per essere poi rivendute sui mercati latino-americani con ingenti profitti da parte delle stesse industrie europee e americane.
A questo avvicendamento ai vertici del potere, non seguì neppure in questo caso un processo di democratizzazione degli stati, in quanto la borghesia modernizzante non esitò a coalizzarsi e a impedire l’emergere di altri attori, formando una classe di tecnocrati e alti funzionari tenacemente convinti a mantenere le attuali strutture di potere. Se le élite furono modernizzanti in campo economico, in politica furono decisamente conservatrici: mantennero infatti il potere politico in mano a una ristretta cerchia di persone, bianche e colte, posta al vertice di una società frammentata su basi etniche. Gli scontri fra liberali e conservatori dell’epoca del caudillismo, le cui vedute, seppur non vi fossero tra essi differenze di classe sociale essendo entrambi i fronti composto da notabili, differivano sul tipo di stato e sul ruolo della Chiesa, ritrovarono un terreno ideologico comune nel positivismo, in cui erano comprese la visione razionalista liberale e la visione religiosa e organicista dei conservatori. Il risultato dell’affermazione positivista fu direttamente proporzionale all’impossibilità di attuare un processo di democratizzazione: queste elite si assunsero quindi il compito, un tempo affidato al re, di guidare le masse, alla luce della loro presunta conoscenza delle leggi naturali e del disegno divino che governavano gli uomini. Questi processi furono caratteristici di tutto il continente, anche se gli esempi più evidenti furono quelli del Messico, dominato dal 1876 al 1910 da Porfirio Diaz, fulgido esempio di regime positivista, modernizzatore in economia e fondato sui vecchi strumenti di dominazione clientelare, del Brasile, in cui alla cacciata del sovrano nel 1889 corrispose un patto fra oligarchie territoriali per la tutela l’industria del caffè, e dell’Argentina, in cui la copiosa immigrazione dall’Europa contribuì alla vittoria delle elite della Capitale su quelle dell’interno, contribuendo alla formazione di un’omogeneità etnica e culturale e all’affermazione, prematura rispetto ai paesi vicini, di partiti e sindacati; si parlò di miracolo economico, sostenuto da capitali inglesi. Ancora una volta il retaggio del passato venne a galla: gli istinti paternalisti, e la politica come struttura clientelare dominarono così il primo secolo di indipendenza, registrando quindi una mancanza di partecipazione ai processi decisionale della maggioranza della popolazione, per altro simile a quella di alcuni stati europei.
La costante crescita delle esportazioni e gli sforzi modernizzanti delle oligarchie in campo economico contribuirono nello stesso tempo a incrinare questo stesso ordine, contribuendo al emergere di nuovi ceti e alla nascita di nuove ideologie (1929, prima Conferenza dei partiti comunisti dell’America Latina), che si rafforzarono nel corso degli anni ’20 con la Grande Guerra per esplodere con tutta la loro forza all’inizio degli anni ’30, dopo il crollo di Wall Street che segnò una battuta d’arresto nella crescita economica di questi paesi: per esempio le merci prodotte in America Latina subirono un deprezzamento del 36% in tre anni. I risultati positivi ottenuti in campo economico e la scolarizzazione avevano infatti accresciuto la spinta di componenti sempre maggiori della popolazione ad ottenere una più equa spartizione dei grandi proventi derivanti dal commercio con l’estero, reclamando allo stesso tempo maggiore spazio politico; la crisi del modello primario-esportatore, dovuta all’economia di guerra in Europa, la creazione dei primi complessi industriali, atti a sostituire le importazioni di merci europee, e la crisi del 29’ che ridusse i pur esigui margini di guadagno di gran parte dei lavoratori esacerbò le tensione prima sopite e scatenò violente proteste in tutto il continente. I meccanismi con cui le classi al potere risposero al fenomeno non differiscono molto dalla risposta che i grandi stati europei diedero alla richiesta di partecipazione politica dopo la fine della Prima Guerra Mondiale: dove la cultura democratica e rappresentativa era diffusa, come in Gran Bretagna, il suffragio universale permise l’inserimento all’interno del sistema politico di nuove forze sociali dando così origine allo stato liberaldemocratico, mentre nel caso di paesi come l’Italia, dove i valori della democrazia erano meno diffusi e lo scontro sociale era più polarizzato, le masse furono assorbite dai regimi autoritari, in cui la partecipazione politica e la rappresentanza venivano vissute nelle strutture offerte dal regime stesso. In America Latina, con l’eccezione del Cile e dell’Uruguay in cui sopravvissero le garanzie costituzionali, mancando praticamente ovunque una cultura politica di tipo democratico/rappresentativo, un maggiore radicamento delle oligarchie al potere, che spesso corrispondeva a una maggiore arretratezza economica e culturale delle masse, contribuì alla reazione autoritaria, mentre nel caso di paese maggiormente avanzati e con una classe di lavoratori maggiormente consapevoli si assisté alla formazione di partiti populisti, capaci di includere nella vita politica i ceti subalterni. Al contrario, i regimi autoritari andarono nella direzione opposta, tentando di escludere dalla politica le classi emergenti, affidandosi spesso all’uso della forza come principale riposta alle richieste di cambiamento di queste masse. Ancora una volta i caratteri sociali e culturali, l’habitus latino-americano, uniti all’arretratezza economica che ancora dilagava soprattutto nelle campagne giocarono contro lo sviluppo di strutture democratiche, tagliando le gambe ai vari tentativi di affermare governi fondati su principi costituzionali. Contemporaneamente si affermò il capitale americano, d’influenza crescente specie nel centro-america dopo la conquista di Cuba e Porto Rico, in sostituzione di quello inglese, determinando forti cambiamenti alla struttura politica ed economica del continente.
Un nuovo modello economico fu introdotto a metà degli anni ’30: le ricette liberiste delle oligarchie modernizzanti furono accantonate, e con l’affermazione di regimi autoritari o populisti, si sviluppò una crescente industria nazionale, spesso protetta da barriere protezionistiche. I protagonisti di questo cambiamento furono in larga parte i militari che attraverso svariati golpe si affermarono come vera e propria forza egemonica: essi infatti incarnavano da un lato l’unità nazionale che la politica non era in grado di rappresentare, dal punto di vista sociale, vista la trasversalità delle classi sociali che facevano parte delle forze armate, e dal punto di vista simbolico. Questi elementi fecero sì che le forze armate si ritrovarono con la possibilità concerta di poter governare i rispettivi paesi, candidandosi a guide naturali del popolo come a suo tempo avevano fatto le oligarchie positiviste. Nonostante gli sforzi di modernizzazione economica e sociale, è necessario considerare questa occasione congiunturale come un’occasione persa, in quanto i cambiamenti nelle strutture economiche e sociali che segnarono la fine delle oligarchie non furono sfruttati per avviare veri processi di democratizzazione (con l’eccezione di pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale), permettendo invece alle forze armate di gestire la cosa pubblica in esclusiva; l’unico elemento di innovazione in questo senso si registra con la trasversalità sociale delle forze armate, che permisero a persone di strati sociali normalmente esclusi di poter partecipare alla vita politica. Se negli stati più arretrati l’egemonia dei militari si declinò come autoritarismo personalistico e familistico (come i Somoza in Nicaragua e i Trujillo nella Repubblica Domenicana), ben più degni di nota furono gli esperimenti populisti negli stati maggiormente sviluppati come l’Argentina e il Brasile. Il populismo fu infatti un esperimento politico che si proponeva di trovare una terza via tra liberalismo e socialismo, attraverso il coinvolgimento delle masse che allora si affacciavano sulla scena politica; l’inclusione delle masse non era però raggiunta attraverso il pluralismo politico e una sfera pubblica libera, ma attraverso la mobilitazione in attività di regime e una politica economica volta a beneficiare le masse di lavoratori urbani, attraverso l’aumento della spesa e la moltiplicazione degli impieghi pubblici. La struttura prevedeva un lìder carismatico alla guida della nazione, che intratteneva un rapporto diretto e personale con il suo popolo, che in lui si riconosceva, alimentando così un’identificazione verticale e una solidarietà orizzontale; si trattava di un regime interclassista e corporativista, che coinvolgeva le tutte le classi sociali prima emarginate, dagli industriali fino al proletariato urbano con il collante del mito della nazione, in cui tutto il popolo si doveva riconoscere, e della politica del nemico, individuando sul fronte interno la minaccia nelle oligarchie liberali, ostili al popolo, e all’esterno nell’imperialismo americano, da cui era possibile difendere la nazione solo con la collaborazione di tutte le forze sociali. Conseguentemente, il modello che si affermo fu il cosiddetto ISI, che imponeva la creazione di una forte industria nazionale tramite misure protezionistiche e la decisa presenza dello stato nel campo dell’economia; il principale promotore di tale modello fu Raul Prebisch, alla guida dal ’48 del Cepal, che sosteneva la necessità per le economie dell’America Latina di concentrarsi sulla crescita del mercato interno e sull’integrazione economica regionale. In questo senso, insieme alla ricerca di una via di sviluppo nazionale per l’economia, si assisté alla definitiva affermazione dello spirito nazionalista, che i regimi autoritari specie quelli populisti alimentarono e da cui trassero forza: il nazionalismo si affermò infatti come vera e propria ideologia di riferimento, tramite cui ogni altra istanza politica doveva essere declinata, dal cattolicesimo sociale al marxismo, segnando la definitiva sconfitta delle dottrine liberali e la difficoltà dell’ideologia comunista ad emergere, viste le sue propensioni tipicamente internazionaliste. Se negli anni 30’ si registrò l’affermazione dei militari come stella polare della politica sudamericana secondo i modelli precedentemente esplicati, a cui seguì un’effimera ventata di democratizzazione dopo la fine della seconda guerra mondiale, vista la vittoria delle democrazie sui regimi fascisti e la neonata questione sociale nata dall’industrializzazione e dall’inurbamento che inserì le masse nel dibattito politico, presto le società si dimostrarono ancora immature per poter intraprendere il cammino verso la democratizzazione, e a brevi esperienze democratiche seguì all’inizio degli anni ’50 il ritorno al potere, spesso per via elettorale, dei regimi populisti che proprio in questi anni raggiunsero la massima diffusione e sviluppo ideologico: Peron fu eletto nel ’46, Vargas in Brasile e Ibanez in Cile all’inizio degli anni ’50, Ibarra in Ecuador, Pinilla in Colombia, Estenssoro in Bolivia e Odria in Perù.
La situazione economica iniziò a peggiorare dalla metà degli anni ’50, vista la ripresa dei paesi europei e il conseguente crollo dei prezzi dei prodotti agricoli; questo causò un’intensa migrazione interna dalle campagne alle città, con migliaia di persone che andarono a riempire le fila del sotto-proletariato urbano ai margini delle grandi metropoli. Contemporaneamente si affermò il cosiddetto desarrollismo, teoria economica di diretta derivazione dell’ISI, che però metteva in primo piano il concetto di sviluppo a scapito della redistribuzione della ricchezza; questi fattori contribuirono alla radicalizzazione dello scontro tra masse urbane e ceti conservatori, e se con la rivoluzione cubana del ’59 movimenti rivoluzionari marxisti si diffusero in tutto il continente, la reazione non si fece attendere. Se infatti vi furono elezioni democratiche in Colombia nel ’54, in Perù nel ’56, e in Venezuela e Argentina nel ’58, i militari tornarono al potere con golpe già nel ’64 in Brasile e nel ’66 in Argentina, mettendo immediatamente fine alle esperienze di governo: le pressioni statunitensi nell’opposizione alle forze di sinistra nel continente culminate negli anni ’70 con l’Operazione Condor, il bisogno di avere garantiti sicurezza e sviluppo e la paura di un’eventuale rivoluzione crearono le condizioni per un ritorno all’egemonia dei militari in nome dell’unità nazionale, emergendo ancora la visone organicista e anti-politica della cultura sudamericana. I militari stessi non condividevano però le stesse ricette economiche e sociali, differenziandosi spesso in diversi gruppi con differenti priorità di governo. In Argentina dal ’66 al ’73 ma soprattutto in Brasile dal ’64 al ’85, si affermò il cosiddetto stato burocratico autoritario, erede in qualche modo delle oligarchie modernizzanti di inizio secolo: era infatti uno stato caratterizzato dal forte pragmatismo, con un elite al governo composta da ufficiali, burocrati e tecnocrati che non si facevano portabandiera di una e vera e propria ideologia, adattandosi invece a seconda della situazione; la priorità veniva individuata nella sicurezza, ottenuta attraverso la repressione, la manipolazione e la corruzione, senza però eliminare ufficialmente le libertà politiche, tentando invece di ridurre la partecipazione politica delle classi subalterne. Ottenuta quindi la quiescenza delle masse popolari, questi regimi si concentravano, non differentemente dai governi populisti, sullo sviluppo economico fondato sull’implementazione dell’industria nazionale, attraverso capitali statali, esteri e privati, mancando però di ridistribuire i profitti alle classi subalterne, causando così forti squilibri sociali. La distinzione fra le fazioni dei militari che anteponevano l’istanza della sicurezza sullo sviluppo e viceversa rimane più evidente nel caso del Perù e della Bolivia, in cui rispettivamente nel ’75 e nel ’71 fazioni di militari più conservatori e autoritari, particolarmente attenti alla questione della sicurezza nazionale, sostituirono i precedenti regimi militari populisti. Particolare è il caso di Panama, la cui politica è sempre stata pesantemente condizionata dal contenzioso con gli Stati Uniti per i diritti sul canale: il generale Torrijos, arrivato al potere nel ’69, tramite l’affermazione dell’identità nazionale panamense iniziò una battaglia per il recupero della gestione del Canale, che portò a termine con la firma del trattato Torrijos-Carter del ’77, segnando così un ulteriore passo in avanti verso l’affrancamento dell’egemonia statunitense. Morì nel ’81 a causa della misteriosa esplosione dell’aereo su cui stava volando.
Un’ulteriore declinazione di questi regimi è possibile ravvisarla in Cile e Uruguay, le uniche democrazie che sopravvissero fino al ’73, in cui vennero effettuati i colpi di stato di Pinochet e Juan María Bordaberry, e in Argentina nel ’76, dando origine a governi denominati tenocratici neo-liberisti: legati ai dettami della School of Chicago, le principali decisioni di politica economica venivano prese di concerto con i Chicago Boys, veri e propri consiglieri economici inviati da Washington. La priorità era quindi lo sviluppo fondato sulle classi borghesi e imprenditoriali prima escluse dalle politiche populiste; il presupposto che differenziava queste politiche da quelle desarroliste era l’idea che nei paesi dell’America Latina non fosse possibile istituire vere e proprie democrazie che non sfociassero nel populismo, visti i caratteri congeniti di arretratezza culturale della popolazione, per cui diveniva necessario creare prima uno sviluppo economico che posasse le basi per una democratizzazione successiva.
La crisi economica degli anni ’80, la fuga dei capitali esteri e la mutata situazione geopolitica, segnata dallo scongelamento dei blocchi, fecero progressivamente crollare le dittature sudamericane, con l’eccezione di Colombia e Venezuela che, avendo passato indenni gli anni ’60 e ‘70 con sistemi rappresentativi, videro invece radicalizzarsi gli scontri sociali, vittima la prima dell’espansione dei cartelli di Calì e Medellin, la seconda del crollo del prezzo del petrolio. Si registrò in questi anni anche l’emergere di una società civile, frutto di un’implementazione dell’istruzione pubblica e della possibilità di un dibattito pubblico, finalmente consapevole e stanca di non poter determinare le politiche governative: se dal punto di vista economico gli anni ’80 vengono definiti la decada perdida, non lo furono dal punto di vista politico, in quanto si assisté alla conclusione delle dittature che per anni avevano dominato il panorama del continente, supportate dal sostegno politico ed economico degli Stati Uniti. La strada per la democrazia sembrava finalmente aperta: nel 1980 il Perù scelse Belaunde, nel ’83 l’Argentina Alfonsin, nel ’85 si affermò Neves in Brasile; il 1989 vide la caduta di Pinochet, mentre anche in Messico nel ’88 il dominio incontrastato del PRI subì i primi contraccolpi. E’ interessante però notare come persino il processo di democratizzazione non sia stato democraticamente guidato. In nessun caso l’avvicendamento al potere fu ottenuto tramite rivoluzioni: nella maggior parte dei casi infatti la democratizzazione seguì percorsi stabiliti dai militari stessi, che spesso promossero veri e propri negoziati con le opposizioni per garantirsi da eventuali processi per la violazione dei diritti umani; le masse certamente si mobilitarono e contribuirono alla fine delle dittature, attraverso le piazze, i movimenti di contestazione del regime (come l’Asociación Madres de Plaza de Mayo in Argentina), e studenteschi, nonché rivoluzionari soprattutto negli anni ’70, come i Tupamaros in Uruguay e Sendero Luminoso in Perù, senza riuscire però a determinare in prima persona le sorti degli antichi uomini di potere.
Gran parte dei paesi dell’America centrale invece, più poveri e arretrati, dopo aver sperimentato negli anni ’60 un’accelerata modernizzazione, si ritrovarono negli anni ’70 gli stessi problemi di esclusione economica e politica che gli stati del sud-america si erano trovati ad affrontare dagli anni ’30 in poi. Soprattutto in Guatemala, Salvador e Nicaragua la violenza politica raggiunse il culmine negli anni ’80, vista l’esplosione del conflitto sociale che già a lungo era stato incubato e l’internazionalizzazione dello scontro: gli Stati Uniti avevano da sempre avuto grandi interessi nell’area che ora sembravano minacciati, in maniera diretta dai movimenti rivoluzionari locali, e in maniera indiretta dall’influenza di Cuba e attraverso essa dell’Unione Sovietica. Inoltre il timore del presidente Reagan che il successo dei sandinisti in Nicaragua potesse generare un effetto domino sulla stabilità dei paesi vicini, lo spinse a optare per una politica di roll-back, per cui qualunque mezzo, eccetto l’intervento militare diretto, fu messo in pratica per cercare di isolare e far cadere il regime nicaraguegno. Solo negli anni novanta, con la fine della guerra fredda e la conseguente fine della dottrina del roll-back, e la sconfitta elettorale del FSLN la temperatura politica dell’area si rivelò maggiormente adatta alla nascita di regimi democratici.
Gli anni novanta si presentarono come un momento di svolta economica e politica in gran parte del continente, con l’affermazione del Washington Consenus e il rafforzamento dei processi di democratizzazione. Le teorie neo-liberiste infatti, propugnate dai principali organismi finanziari internazionali e dalle istituzioni statunitensi, furono il punto di riferimento dei governi sudamericani per uscire dalla crisi del decennio precedente e per integrare finalmente l’economia del continente con le economie dei paesi più avanzati: queste garantirono una riduzione del deficit e una maggiore efficienza dell’apparato pubblico, anche se non portarono ad una crescita sostenuta che già alcuni paesi avevano sperimentato anni prima né ad un miglioramento degli indicatori sociali, che anzi subirono un peggioramento piuttosto generalizzato (i poveri restarono oltre 200 milioni, più che nella decada perdida). Le disuguaglianze, piaga endemica delle società latino-americane, non furono affatto sanate, anzi si registrò l’accrescersi delle differenze economiche. Dal punto di vista politico si assisté ad una progressivo consolidamento delle istituzioni democratiche, ottenuto attraverso una maggiore partecipazione della società civile nella vita politica e a una maggiore consapevolezza dell’importanza delle regole e dei limiti imposti dalla pratica democratica, anche se il panorama appare piuttosto differenziato. I paesi che già avevano conosciuto esperienze democratiche come Cile, Uruguay, Messico e Brasile, si avviarono al consolidamento delle istituzioni, attraverso un vasto consenso della popolazione nelle pratiche democratiche e una legittimità delle stesse riconosciuta dai partiti politici. In America centrale e nei paesi andini invece il permanere delle ancestrali fratture etniche e sociali, e lo scarto consistente tra popolo e elite governative, indebolì le neonate istituzioni democratiche, e le politiche neo-liberiste non fecero altro che esacerbare lo scontro: dall’Ecuador alla Bolivia, dal Nicaragua al Guatemala, dalla Colombia, ancora straziata dalle lotte per il controllo del narcotraffico, al Venezuela, mai uscito dalla crisi degli anni ’80, le istituzioni democratiche risultarono deboli, e presto non riuscirono a reggere alla violenza e agli scontri sociali ormai dilaganti. I casi di Perù e Argentina dimostrarono invece la permanenza delle problematiche più intimamente legate alla cultura politica latino-americana: il governo di Fujimori in Perù e di Menem in Argentina, dimostrarono infatti come queste popolazioni erano ancora sensibili alla retorica populista e anti-politica. Eletto nel ’90, nel ’92 Fujimori fece un autogolpe, sospendendo il Parlamento e modificando la Costituzione, e governò con il pugno di ferro fino al 2000, quando la crisi economica e l’inefficienza delle sue ricette economiche lo costrinsero alle dimissioni. Emblematico fu il caso di Menem, il “figlio prediletto” del Washington Consensus, eletto nel ’89 dopo che il governo Alfonsin non era stato in grado di gestire la crisi economica, che fondò la propria popolarità sulla stabilità economica che riuscì a conseguire attraverso le ricette neo-liberiste del suo ministro dell’Economia Cavallo, in particolare grazie alla decisione di imporre la parità cambiaria tra pesos e dollaro, e su un populismo di tipo peronista, ancora fortemente radicato nella società argentina. Amnistiò i militari colpevoli di violazione dei diritti umani per ottenere l’appoggio dell’esercito, e Il misto tra misure neo-liberali, populismo e una certa dose di corruzione e clientelismo, lo portarono a cambiare la costituzione nel ’95 e a venire rieletto; durante il suo secondo mandato però la parità di cambio da lui introdotta si rivelò dannosa per l’economia argentina, e la crisi economica ormai diffusa e gli scandali interni al suo governo portarono alla sua sconfitta nel ’99.
Il tonfo dell’Argentina nel 2001 segnò il ritorno al predominio della politica sull’economia. Diminuì il peso delle istituzioni finanziare nel determinare le politiche economiche degli stati, vista anche la conseguente affermazione al governo di gran parte dei paesi latino-americani di forze di sinistra: anche in questo caso, il panorama che ci si presente comprende svariate sfumature, dai regimi tradizionalmente più consolidati in cui le regole della democrazia si erano già consolidate nel decennio precedente, come il Brasile di Lula, il Cile di Michelle Bachelet, Vazquez in Uruguay e Garcia in Perù, più propensi a un cauto riformismo volto ad allargare i beneficiari della crescita economica che quasi ovunque si registrò fino al 2008, e regimi più sensibili alle sirene populiste come l’Argentina e il Venezuela.
I risultati del processo di democratizzazione, evidenti in special modo dopo la svolta a sinistra intrapresa dalla maggioranza dei paesi, hanno contribuito alla revisione dei rapporti di forza tra le nazioni sudamericane e le principali potenze mondiali e tra le stesse nazioni sudamericane. La progressiva presa di coscienza dei propri mezzi da parte di classi sociali prima escluse dalla stanza dei bottoni (come gli indio di Morales e le forze di sinistra del Partito dei Lavoratori di Lula), e il loro inserimento tra le compagini governative, ha fatto emergere istanze nuove e piuttosto differenti rispetto al passato: ai dogmi neo-liberisti di importazione statunitense, che non hanno generato una crescita economica duratura e hanno privilegiato unicamente le compagini imprenditoriali e borghesi, si sono sostituiti infatti altri modelli di sviluppo, maggiormente legati alla realtà propria e peculiare delle società latino-americane, che hanno cercato di dividere i proventi della crescita economica dell’ultimo decennio con gli strati più deboli della popolazione che rappresentano il loro bacino elettorale, mantenendosi nella maggior parte dei casi all’interno di una prospettiva democratica. Le forze sprigionate da questo cambiamento di rotta politica hanno generato una rivoluzione nei rapporti egemonici degli stati sudamericani con le potenze occidentali e specialmente con gli Stati Uniti, che dalla dottrina Monroe in poi hanno influenzato pesantemente il percorso politico del continente: cessata la dipendenza economica dagli aiuti delle istituzioni finanziarie mondiali e dai capitali americani, i governi sudamericani si sono ritrovati con la possibilità di decidere autonomamente del proprio futuro, come i numerosi casi di contestazione della leadership americana dimostrano. Le perplessità dei governi latinoamericani per la costituzione di un’unica zona di libero commercio dal Canada alla Patagonia, progetto inserito nella politica americana di abolizione dei dazi e denominato ALCA, appare infatti come una sfida aperta agli equilibri che per un secolo hanno governato la politica e l’economia in Sud America; ancora più ambiziosa sembra la sfida lanciata da Hugo Chavez e Fidel Castro con la costituzione dell’ALBA, proposta di integrazione alternativa fondata sulla lotta alla povertà e all’esclusione sociale invece che sul libero mercato. Il proliferare di istituzioni sovrannazionali e la marginalizzazione dell’OSA, che non a caso ha sede a Washington, dimostra inoltre una volontà generalizzata di voltare pagina, e di promuovere comunità economiche e politiche sul modello dell’Unione Europea, quindi certamente votate allo sviluppo di un’economica di tipo capitalista ma con più attenzione per le problematiche sociali: il tentativo di integrazione fra il MERCOSUR e la Comunità Andina nell’UNASUR dovrebbe portare alla creazione di un parlamento e di una moneta comune entro il 2019. Se è possibile registrare un cammino progressivo di emancipazione delle democrazie latino-americane da ingerenze “straniere”, anche all’interno del continente stesso l’equilibrio egemonico risulta in rapido mutamento: la sfida brasiliana per ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, rappresenta la definitiva presa di coscienza del ruolo di primo piano che il Brasile ritiene di poter svolgere nel panorama mondiale, mentre l’opposizione e le denuncie da parte del presidente del Venezuela Chavez dell’imperialismo americano segnano l’emergere di un fronte capitanato proprio dal Venezuela, che si riconosce nell’ALBA, volto a emancipare lo sviluppo del continente dal capitale statunitense e di conseguenza dalle ingerenze di Washington nella politica del continente.

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[ 1 ]. Industrializzazione sostitutiva delle importazioni.
[ 2 ]. Commissione Economica delle Nazioni Unite per ONU per l’America latina.
[ 3 ]. Operazione condotta negli anni ’70 dal governo statunitense con lo scopo di destabilizzare quegli stati dell’America Latina in cui governavano, o c’era il rischio concreto che lo facessero, partiti di sinistra che potevano danneggiare gli interessi delle compagnie e dei capitali occidentali e soprattutto americani.
[ 4 ]. Frente Sandinista de Liberacion Nacional.

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