INTRODUZIONE
Perché ho deciso di approfondire le mie conoscenze sulla letteratura russa? I programmi a scuola ci hanno permesso di conoscere, almeno a linee essenziali, i più noti e influenti autori delle maggiori nazioni europee, ci hanno fatto annusare molti testi e, chi più chi meno, tutti siamo in grado di orientarci nel panorama letterario del nostro “vecchio” continente. Ma raramente si tocca ciò che è stato scritto dai nostri vicini. La Russia per molti è un paese enorme e misterioso, ma soprattutto sconosciuto. Eppure ha prodotto, specialmente nel corso del secolo XIX, una fioritura di capolavori che difficilmente trova uguali.
L’idea di letteratura russa evoca nella mente delle persone il nome di una dozzina di grandi romanzieri degli ultimi due secoli, oltre che a un più limitato numero di poeti. In altre parole “la letteratura russa” è un evento recente.
La grande letteratura nazionale russa coincide grosso modo con il secolo XIX e nasce quindi molto tempo dopo la letterature dell’Europa occidentale. E’ così costretta in tempi assai stretti a forgiare un lingua letteraria e una propria tradizione, sviluppantesi altrove in secoli. Puškin nasce nel 1799 e Tolstoj muore nel 1910, un secolo che è bastato ad una nazioni a emergere praticamente dal nulla e a creare tesori difficilmente eguagliabili. “ Un solo secolo, il XIX, è stato sufficiente ad un paese che non aveva in pratica una propria tradizione letteraria, per creare una letteratura che, per valore artistico, per influenza esercitata, per tutto insomma tranne che per la mole, eguagliala produzione di grandi nazioni europee, come Francia e Inghilterra.” (Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura russa, 1987, Garzanti Editore, trad. di Ettore Capriolo).
Ma prima vorrei come prima cosa volgere lo sguardo alla Russia che rese possibile il germogliare di questa nuova corrente letteraria che così tanto ha dato a quella internazionale.
1. CONTESTO STORICO
GLI ANNI 50: LA SPERANZA
Negli ultimi anni del regno di Nicola I iniziano a cristallizzarsi i punti chiave della crisi che era maturata nei decenni precedenti: il sottosviluppo tecnologico, produttivo e infrastrutturale che si sarebbe rivelato funesto in un periodo in cui l’intensa competizione internazionale per la conquista di nuovi mercati e le rivendicazioni territoriali minacciavano di sfociare da un momento all’altro in un confronto armato con il resto dell’Europa. Il dato più evidente agli occhi dell’opinione pubblica fin dagli inizi della guerra di Crimea (1853-56), che vide fronteggiare la Russia contro l’Impero Ottomano, sostenuto da Francia e Gran Bretagna, per il controllo dell’area balcanica, era il divario tecnologico nei confronti del nemico.
Di lì a poco, nel 1855, Nicola I sarebbe morto senza avere segnato alcuna riforma sostanziale sul piano sociale e costituzionale ma successivamente ebbe iniziò in Russia un epoca di rivoluzione culturale paragonabile a quella francese sotto il dominio di Napoleone III oppure quella francese durante il regno di Queen Victoria. Premessa fa la successione al trono di Alessandro II dopo la morte i suo padre che inaugurò un primo periodo di grandi riforme.
La ritirata dei francesi davanti a Mosca ne 1812 aveva spalancato alla Russia le porte dell’Occidente mettendola a confronto con la civilizzazione europea e mettendo in risalto l’arretratezza russa.
Nelle sfere intellettuali e più tardi anche in quella pubblica, iniziò a circolare l’idea che la chiave dell’arretratezza russa non stava tanto nella monarchia quanto nei rapporti di proprietà e produzione. “Il regime del servaggio è una pastoia che ci trasciniamo dietro e che incatena sempre al medesimo posto, mentre gli altri popoli sii spingono in avanzata inarrestabile”, così denunciava lo storico Boris Čičerin, ”Senza l’eliminazione del regime si servaggio non è possibile risolvere alcuno dei nostri problemi, né politico, né amministrativo, né sociale” (Nečkina, Griboedov i dekabristy, Mosca, 1951, p. 131)
La guerra, del resto aveva accelerato processi già in atto da tempo: le casse dello Stato erano prosciugate, il commercio estero era crollato e le crescenti rivolte contadine mettevano in percolo la produzione agricola. Dopo dibattiti lunghi il 19 febbraio del 1961 fu abolita la servitù della gleba.
Il blocco progressista che sosteneva l’abolizione era formato dalla nobiltà terriera di regioni ioni aperte al commercio internazionale, quella in procinto di divenire la classe imprenditoriale agraria, oppure quella interessata, dopo la liberazione dei contadini, a ad un passaggio ad un’attività manifatturiera, piuttosto che al proseguimento dell’attività agricola. Chi invece avrebbe perso con questa riforma e quindi si era opposto arduamente fino all’ultimo contro l’abolizione, era la massa della piccola proprietà terriera abituata al tradizionale stile di vita improduttivo, che incapace di diversificare la sua produzione e priva di capitali per fare fronte ad una sempre maggiore concorrenza, sarebbe tramontata. Anche il vecchio establishment burocratico-militare, che fino ad ora aveva controllato l’andare della società, si opponeva veemente ad un tale cambiamento che avrebbe potuto minare la loro supremazia favorendo la progressione delle classi borghesi.
Ai contadini dopo la liberazione fu garantito un fondo dallo Stato, ed i motivi erano principalmente due: da un lato si voleva evitare l’emigrazione di massa dalle campagne e dall’altro i fondi volevano prevenire i prevedibili disordini causati da una liberazione senza terre.
Ma la spinta innovativa che aveva preso piede sotto Alessandro II non si arrestò. Insieme all’abolizione della servitù della gleba le leggi che limitavano fortemente la libertà di espressione divennero considerevolmente meno rigide e questa cauta liberalizzazione diede la possibilità di discutere pubblicamente di problemi di natura economica, sociale, culturale e politica, cosa fino ad allora inimmaginabile.
Le discussioni sulla situazione della Russia, fino ad allora confinate in saloni e circoli privati, furono ora portate avanti in pubblico. Il governo perse il controllo sulla formazione dell’opinione pubblica e oscillava tra un vago acconsentimento a questa svolta liberale e un desiderio di ritorno al vecchio esercizio di potere autocratico.
Sotto il velo dell’innovazione e liberalizzazione, si nascondeva un sistema che era rimasto presso che invariato. Un esempio ne è l’abolizione della servitù della gleba. Da un lato i contadini erano liberi, ma dall’altro la quota emessa dallo Stato era troppo esigua per garantire autonomia e i contadini erano quindi costretti a pagare i proprietari terrieri per l’utilizzo delle loro terre se non avevano i mezzi per compragliela, cosa che impossibile per ognuno di loro. In un certo senso questa riforma portò soltanto ad un ulteriore impoverimento della classe contadina, che in molti casi si indebitava con le banche e non riusciva a restituire i crediti messi a disposizione per comprare delle terre e liberava piuttosto solo i proprietari terrieri che perdevano qualsiasi obbligo nei confronti dei loro ex servi e si garantivano comunque una costante entrata analoga ai tributi feudali per la lavorazione delle terre che gli avrebbe permesso di modernizzare la produzione, oppure passare ad un’altra attività.
A scapito della povertà che imperversava nelle campagne, i centri urbani fiorivano ed il ceto borghese iniziò a passare in primo piano e l’investimento di capitali in settori privati. Nell’immediato dopoguerra vennero costruite fabbriche, le merci andavano a ruba e crebbe in modo esponenziale la speculazione finanziaria.
Per consentire lo sviluppo di un’economia moderna furono fatte altre riforme nel campo giuridico e amministrativo.
Tutto ciò conferì agli anni 50 del XI secolo la facciata di un’effimera età d’oro che ben presto avrebbe mostrato il suo vero volto.
GLI ANNI 60: DALL’ APICE ALLA RICADUTA
Evaporato il primo entusiasmo dopo la lettura del manifesto dell’abolizione della servitù della gleba, già nella seconda metà del ‘61 il quadro socio-politico da sempre più segni di instabilità. I contadini, delusi dal protrarsi degli obblighi feudali previsti da manifesto e per l’aumento della povertà provocato dalle condizione della “liberazione”, si mostravano poco collaborativi. Inoltre era per coloro che da secoli avevano avuto l’indiscusso ruolo di servi, era assai difficile abituarsi a questi nuovi rapporti di lavoro. L’idea del valore del lavoro individuale era per loro nuova e incomprensibile. Nelle campagne il malcontento generale e il caos provocati dalla “falsa liberazione” sfocia in rivolte cruente che vengono soffocate nel sangue.
Anche nelle capitali i disagio di molti giovani studenti, che per via della loro visione del mondo materialista, nutrita da teorie su utopie sociali, rifiutavano e criticavano il governo e la classe sociale nobiliare fino ad allora dominante, insieme a esponenti del proletariato intellettuale porta a manifestazioni ed arresti. In questo clima instabile.
Nel 1864 furono introdotti gli “le assemblee di zemstvo” che erano una sorta di giunta amministrativa locale Benché la legge elettorale favoriva la nobiltà terriera era eletta fra tutte le classi sociali. Ma anche in questo caso, ciò che sembrava una grande svolta liberale si rivela essere fasulla, dato che gli zemstvo erano investiti di competenze molto limitate.
Ma il breve, convulso spiraglio liberale che la Russia aveva visto in poco più che quindici anni si volge al suo termine.
Il 4 aprile 1866 un giovane sovversivo attenta alla vita dello zar e queste da inizio ad una progressiva chiusura del governo che ritorna alle sue posizioni iniziali. Uno ad uno quasi tutti i ministri liberali vengono rimpiazzati e riviste sovversive di sinistra come il “Sovremennik” vengono chiuse.
2. SOCIETA’ IN CAMBIAMENTO
VITA CULTURALE META’ XIX SECOLO
La liberalizzazione avvenuta con le riforme, che in particolare avevano portato a un decentramento dell’amministrazione, cambiarono radicalmente l’asseto delle città maggiori russe. Dopo la costruzione di stazioni, musei, ristoranti, reti ferroviarie, l’introduzione di mezzi di comunicazione moderni come i telegrafi, città come Mosca e San Pietroburgo arrivarono ad assomigliare sempre di più alle invidiate moderne capitali europee.
Inoltre, la liberalizzazione aveva reso accessibili un largo spettro di mestieri (medici, imprenditori, avvocati, artisti, ingegneri,…) che dietro al vecchio ordine burocratico-feudale, andarono a creare una solida classe dirigente borghese, che iniziò a riempire le sale dei teatri, dei musei, delle gallerie, a costruire case estive e a inaugurare un turismo di massa che aveva come destinazioni mete europee.
Senza riguardo per la povertà catastrofale che regnava nelle campagne e nei quartieri di periferia delle grandi città, l’alta società russa si adattava al progresso europeo.
Il commercio interno ed esterno fioriva e nei centri urbani vennero sommerse le vecchie consuetudini, dato che regnava un condiviso sentimento di entusiasmo “L’idea di libertà aveva conquistato tutti ed era penetrata ovunque, e accadevano cose davvero incredibili e mai viste. Ufficiali che andavano in congedo, per aprire una rivendita di libri, occuparsi di editori o fondare un rivista[…]. Chiunque avesse capacità ed energia si avventurava per una strada nuova, si trovava una nuova attività conforme alle sue capacità.” (Šelgunov, Vospominanija, Mosca, 1923)
Le arti vissero un periodo di rilancio fino ad allora sconosciuto .
La relazione con l’Europa aveva attraversato varie fasi per arrivare al riconoscimento di parità culturale.
Un gruppo di giovani pittori, ribellandosi alla pittura accademica del periodo, inaugurarono la corrente realista che si orientava a quella europea, mentre a Mosca e a San Pietroburgo furono inaugurati i primi conservatori. I teatri ospitavano maestri occidentali, come Wagner e ili balletto imperiale a San Pietroburgo godeva di fama internazionale.
In questo periodo florido si svilupparono anche il sistema d’educazione e le scienze, in particolare quelle naturali e matematiche, che ottennero riconoscimento anche in Europa.
Dopo un’iniziale periodo di soggezione rispetto alla cultura europea, i russi cominciarono a riscoprire le proprie radici nazionali e l’interesse delle scienze sociali e umanistiche si volse verso lo studio dal punto di vista etnografico, storico e linguistico della vita popolare, che portò per esempio alla pubblicazione di vari dizionari. Il “Grimm russo” Alekandr Afanas’ev raccolse le favole popolari. Erano questi gli anni (XIX sec) in qui si posero i primi mattoni per le scuole accademiche della filologia, della linguistica e del folkloristica russa.
L’ approccio all’investigazione sulle radici e lo sviluppo della letteratura nazionale passò dall’essere storico-critico all’inizio, all’ essere socio-psicologico successivamente.
RUOLO DELLE RIVISTE
Non è inoltre da sottovalutare il ruolo giocato dalle riviste nelle quali tutti i maggiori scrittori e teorici del tempo fin dagli anni 40 pubblicarono molte delle loro opere. In questo periodo divenne maggiore la libertà d’opinione e non si tardò a fondare numerose riviste di carattere critico e sovversivo che pubblicavano sia all’estero che nella Russia stessa. Esse criticavano la struttura della società russa, in particolare la burocrazia centralizzata, non preparata alla periodo di cambiamenti che stava passando il paese. Una fra le tante era la rivista “Vremja” (il tempo) in cui i fratelli Michail e Fëdor Destoevskij presentarono un programma (počvenničestvo), con il quale esortavano l’élite russa a collegare la loro ricezione di valori occidentali con un ritorno alle vecchie radici nazionali.
Dopo un fallito attentato sullo Zar nel 1966 l’epoca delle “grandi riforme” liberali si avvicinò al suo tramonto e molte riviste di stampo critico furono vietate.
UN PERIODO DI FERMENTO IDEOLOGICO
SLAVOFILI VS. OCCIDENTALISTI
Il XIX secolo è per la Russia un secolo di svolta. Negli anni 30-40 giunge alla maturità la prima generazione formatasi dopo la rivoluzione decabrista e si delineano due nuove correnti ideologiche antitetiche che tentano di dare un lettura della storia russa fino ad allora e tracciare le sue linee di sviluppo future: slavofilismo e occidentalismo. Le due correnti, all’inizio schematiche e rigide, si impregnano di contenuti sempre più ricchi e per tutto il XIX secolo non ci sarà questione che non riceva una doppia lettura e a cui non venga offerta una doppia soluzione. Per la prima volta schiere di intellettuali iniziano a porsi interrogativi sull’identità del popolo slavo mettendo in dubbio l’Europa come unico modello da seguire: in che rapporto sta la storia della Russia con quella dell’Europa occidentale? Come spezzare il circolo vizioso, fra opposizione politica, arretratezza economica e servitù della gleba? Come superare il divario fra élite colta e massa popolare.
La prima opzione, lo slavofilismo, che rifiuta radicalmente ogni avvicinamento all’Europa, viene abbracciato da scrittori ed intellettuali quali come Herzen e Aksakov, che mettono al centro del proprio modello di sviluppo la tradizionale comunità rurale (obščina) e il ruolo guida della chiesa ortodossa.
La seconda opzione, seguita da intellettuali come Belinskij, prevede la creazione di una nuova Russia “europea” facendo leva sulla base sociale degli intellettuali ceto-medio occidentalisti che avrebbero portato avanti questo nuovo progetto sociopolitico.
Un convinto slavofilo fu Aleksandr Herzen , uno dei più importanti filosofi e intellettuali russi del ‘800, che all’inizio degli anni quaranta, si trovava a Mosca, dove nei circoli intellettuali era in atto un risveglio civile all’insegna dell’idealismo hegeliano e del dibattito fra slavofili e occidentalisti. Il risveglio della Russsia così, così sosteneva Herzen, non risiedeva nell’inseguimento del modello Europeo, bensì nell’elaborazione di nuovi modelli alternativi a quello occidentale. Con la sua diffidenza verso la democrazia e la convinzione in uno sviluppo autonomo del socialismo in Russia attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nella classe contadina, fanno di Herzen uno dei padri del il futuro “populismo”. La “società” era vista come una tabula rasa che l’individuo autocosciente, cioè l’intellettuale illuminato, avrebbe dovuto plasmare, trasformando in cooperative socialiste le tradizionali obščiny, cioè e terre coltivate in comune dai contadini.
Dopo la morte di Nicola I e con la progressiva apertura in Russia, Herzen nel 1857 inizia a pubblicare una rivista chiamata “Kolokol” (La Campana) che diverrà negli anni seguenti una delle principali piattaforme di discussione per intellettuali dei più diversi orientamenti ideologici sulle riforme necessarie (specialemete la liberazione dei servi) e sulle vie che la Russia avrebbe dovuto prendere in futuro. Ma la sua fiducia nella figura dello Zar e nell’organo di governo nel processo di affrancamento dei contadini gli causano critiche da parte dei giornalisti radicali del Svremennik e la popolarità di Herzen comincia a diminuire. I nuovi attivisti infatti sono di origine non nobile e Herzen con la sua tradizione saldamente ancorata nel liberalismo-nobiliare non riesce a stare a pari passo con l’evoluzione dei movimenti rivoluzionari, che erano decisi a rinnovare la Russia per via di una rivoluzione violenta e classista. Herzen, che credeva saldamente e probabilmente erroneamente nel “buon cuore” dello zar, rifiutava nettamente ogni forma di violenza per provocare i cambiamenti e le riforme da lui desiderati.
STRADA VERSO IL RIVOLUZIONISMO
Abolito il servaggio il ruolo stimolante del Kolokol diviene minore e le nuove correnti ideologiche, che ormai avevano oltrepassato l’approccio forse un po’ ingenuo al socialismo, trovarono nuovi leader e piattaforme da seguire, come nella figura di Černyševskij e della rivista Sovremennik. Questi nuovi attori davano una nuova faccia al “socialismo contadino” attribuendoli un significato più radicalmente rivoluzionario, cioè che la leva del cambiamento non fosse più come sostenuto da Herzen la classe politicamente insoddisfatta, bensì la classe sociale egli economicamente sfruttati.
L’evoluzione ideologica dei nuovi gruppi sovversivi è inizialmente ancora confusa. Si limitano a ripetere parole d’ordine abbastanza vaghe e copiate da riviste come il “Kolokol”. Il programma di uno di loro, “Terra e libertà”, nome del primo gruppo che diventerà famoso e modello per molti, ha uno stampo già decisamente populista con la sua nelle capacità rivoluzionarie dei contadini e nel ruolo dell’ obščina rurale come fonte di miracoli sociali. Ma questi primi gruppi hanno vita breve e una volta tramontati è scocca l’ora di movimenti più radicali, dal carattere decisamente rivoluzionario. Nel 1862 intorno al diciannovenne Pëtr Zajčnevskij si crea il gruppo “Giovane Russia” che con il suo omonimo manifesto segnerà un punto di svolta rispetto alle esperienze precedenti. Non tanto per il programma, che continua a porre l’accento sul carattere socialista del movimento, bensì nei toni aggressivi e violenti che a volte sfiorano il nichilismo. “La rivoluzione, la rivoluzione sanguinosa e spietata, la rivoluzione che tutto deve cambiare radicalmente, rovesciando tutte le basi della società attuale. […]. Li batteremo nelle piazze – se quei porci vigliacchi oseranno presentarvisi – li batteremo nelle case, negli stretti vicoli delle città, nelle larghe vie della capitale, nei villaggi, nei borghi ” scrivevano nel loro manifesto.
Ma queste nuove aggruppamenti sanguinarie non colsero neanche il consenso degli intellettuali più liberali e addirittura l’anarchico Bakunin si affrettò a dissociarsi dagli espliciti appelli a bagni di sangue, sostenendo che questi giovani fossero solo assetati di sangue per placare la loro rabbia, ma che il loro programma non avrebbe portato ad alcun cambiamento.
Eppure, l’immediato futuro del movimento populista apparteneva a gruppi di quel tipo e verso la metà del decennio nascono aggregazioni che rabbiose e figlie della propaganda nichilista portata avanti in quegli anni, privilegiano un’attività rivoluzionaria votata alla distruzione di ogni assetto o norma sociale.
Figura di spicco è l’insegnante poco più che ventenne Sergej Nečaev – grazie alla stilizzazione datane nei “Demoni” di Dostoevskij – diventerà il simbolo stesso del fanatismo rivoluzionario senza scrupoli. Appoggiato da Bakunin redigerà un documento di stampo anarco-bakunista che prevede “la distruzioine di ogni cosa stabilita” per eliminare qualsiasi forma di potere o istituzione.
Nonostante il pathos estremistico i movimenti estremisti sono condannati a fallire, complice la capillare persecuzione da parte delle autorità, specialmente dopo l’attentato alla vita dello Zar, e l’avanguardia progressista man mano torna a orientarsi verso un movimento sociale graduale.
3. LA CULTURA LETTERARIA DI META’ OTTOCENTO: VERSO IL REALISMO
GLI ANTECEDENTI LETTERARI: PUŠKIN E GOGOL’
Negli anni precedenti agli anni 50 e 60 la letteratura aveva esperimentato un vero e proprio terremoto. Per quanto riguarda i problemi di carattere linguistico e stilistico, lo scioglimento del rigido sistema dei generi da il via libera a innumerevoli sperimentazioni stilistiche e generi combinati in nuove strutture, arrivando così ad una libertà di scrittura capace di esprimere il reale in tutta la sua complessità.
Era iniziato inoltre il passaggio dalla letteratura come mezzo di svago da salone alla militanza intellettuale come professione. Nonostante la pesante oppressione esercitata dal governo dello zar Nicola I, si affermò nel campo della letteratura, negli anni 40 e 50, la tendenza al realismo critico.
L’evoluzione iniziò con la morte del gigante Puškin nel ’37, leader indiscusso della letteratura russa, che aveva portato al tramonto un’era letteraria. Iniziatore della letteratura e lingua russa moderna, aveva rappresentato la sublimazione del romanticismo europeo fuso all’illuminismo classico settecentesco e alla tradizione popolare russa. Se dal romanticismo riprese per lo più aspetti esteriori, quali la tecnica e le ambientazioni, il contenuto non rischiò mai di cadere nel misticismo e sentimentalismo tipico della corrente romantica europea, ma assunse al contrario un carattere nazionale, intriso di raffinata e velata critica al sistema. La sua prosa rimase sempre chiara ed equilibrata, caratterizzata da una classica semplicità nel linguaggio.
Anche se una periodizzazione a suon di nomi risulta oggi assai semplicistica, gli scrittori e poeti della generazione successiva (Gogol’, Tolstoj, Turgenev,…), alcuni già attivi quando Puskin era ancora in vita, non poterono fare a meno di confrontarsi con l’eredità lasciata dal mostro sacro che egli era stato.
Un esempio ne è Nikolaj Gogol’, dieci anni più giovane di Puškin, che maturò all’ombra dell’ultimo e completò l’opera di “deromantizzazione” iniziata da lui, che sfocerà negli anni 40 nella “scuola naturalista”.
Per molto tempo i due furono visti come i due poli antitetici fra i quali la letteratura russa si muoveva: ai contenuti illuministi e la forma pulita della prosa puškiniana, Golgol’ opponeva la sua grottesca satira sociale dallo stile ricco e .
Inoltre, con la morte di Puškin l’interesse per il genere della poesia diminuì notevolmente e poté così iniziare lo sviluppo della prosa realistica russa che troverà il suo culmine nella seconda metà del XIX secolo. E’ lui che inizia con la descrizione realistica della società in cui viveva. Il suo romanzo “Anime morte” può essere definito come il primo romanzo di carattere realista scritto in russia, anche se le dalle sue descrizioni apparentemente neutrali, all’improvviso balzano fuori particolari ingigantiti, deformati, che gettano sui brani una luce grottesca, come esemplifica il seguente brano tratto da uno dei suoi racconti della raccolta “Migrod”:
“Tutto il gruppo formava un quadro poderoso: Ivan Nikiforovič eretto in mezzo alla stanza nella sua intera bellezza, senza verun ornamento! La vecchia, a bocca aperta, e l'espressione più stolta sul viso spiritato! Ivan lvanovič col braccio in alto, così come si raffigurano i tribuni romani! Un attimo raro fu quello, una scena grandiosa! E, pur nonostante, non vi era che un solo spettatore: il ragazzino dall'incommensurabile pastrano, che stava lì assai tranquillo, scaccolandosi il naso con un dito.”
L’influsso di Gogol’ sarà comunque determinante sulle generazioni successivi di prosatori e secondo alcuni critici proprio egli fu inconsapevolmente il fondatore della scuola naturale, dalla quale successivamente si sviluppò il realismo russo.
LA SCUOLA NATURALE
Negli anni quaranta, si sviluppò in Russia la “scuola naturale” orientata verso una descrizione ironica, immaginosa, ma il più possibile veritiera della società russa contemporanea in tutti i suoi aspetti e personaggi.
Negli anni 40 si era già sviluppata un corrente che mirava a descrizioni “fotografiche” di determinati segmenti della vita sociale. Se anche le descrizioni erano capaci di mettere a fuoco minuti meccanismi sociali, erano spesso confinate ad un solo luogo e in racconti privi di azione, descrivevano l’ambiente di un solo personaggio. Ma proprio i personaggi, per la maggior parte appartenenti alle classi sociali più umili, erano del tutto privi di profondità e svolgevano il ruolo di mere “maschere sociali”. Quindi anche se gli scritti sono capaci di mostrare diverse sfaccettature della società russa in modo assai realistico e ricco di dettagli l’individualità dei personaggi stessi si perdeva nel contesto in cui vivevano.
I giovani scrittori della scuola naturalista riprenderanno utilizzeranno gli strumenti di analisi sociale offerti da queste corrente, ma li applicheranno ad una nuova scuola che aveva uno scopo assai più ambizioso. Rappresentano il superamento della mera “fotografia” sociale praticata precedentemente e la arricchiranno di procedimenti stilistici e temi ripresi in larga misura da Gogol’, come la mescolanza di stile contrastivo, realistico-grottesco e patetico. Finalmente troveranno spazio il mondo dei rapporti e dei conflitti reali. Ciò che rappresenta infatti la grande innovazione è il passaggio dell’uomo all’interno del racconto da personaggio subalterno e alienato ingranaggio del meccanismo sociale a personalità autocosciente, portatrice di valori “critici” all’interno della società.
I racconti si realizzano in un tessuto narrativo costituito da vari tipi di conflitto fra sfere differenti della società, come il conflitto fra città e campagna, la ricerca di giustizia per un torto subito (con o senza vero e proprio risvolto giudiziario).
E’ da sottolineare che molti dei giovani novellisti che aderirono alla scuola naturale saranno i pezzi da novanta nella seconda metà del secolo, come Dostoevskij, Turgenev, Herzen, Gončarov.
L’importanza dell’uomo nel racconto è riassunta da Dostoevskij, uno dei maggiori esponenti del realismo nella seconda metà del secolo e che nella gioventù aderì alla suola naturalista. Nel 1839 scrive al fratello Michail: “L’uomo è l’enigma che deve essere risolto e chi va alla ricerca della soluzione per tutta la vita non può dire di avere sprecato il proprio tempo; io mi dedico a questo enigma, poiché voglio essere un uomo.”
Nel suo romanzo giovanile “Povera gente” sono presentati tutti i conflitti della scuola naturale, ma in primo piano emerge il conflitto dell’individuo col proprio ambiente sociale. In particolare analizza il ruolo della cultura nel processo di autodefinizione della personalità autonoma e di una nuova coscienza sociale al di fuori dei vecchi schemi burocratici-cetuali dominanti. Il protagonista dopo un lungo processo giunge a prendere coscienza della propria dignità individuale, a sviluppare un punto di vita autonomo e critico sulla realtà sociale circostante.
La letteratura sta definitivamente uscendo dal paradigma nobiliare-patriarcale che l’aveva dominata fino a adesso per entrare in una nuova letteratura dominata dai rapporti di lavoro borghesi e dalle conseguenze psicologiche e relazionali che ne derivano.
E’ in questo che consiste la rivoluzione nella letteratura del primo Dostoevskij. “Egli raffigura non “l’impegno povero”, ma l’autocoscienza dell’impiegato povero […]. Ciò che nell’orizzonte di Gogol’ era dato come un insieme di tratti oggettivi che si componevano in un preciso prfilo sociologico e caratteriologico del personaggio, Dostoevskij lo include nell’orizzonte del personaggio, dove diviene oggetto della tormentosa autocoscienza […] ” (p442)
LA CRITICA LETTERARIA: ARTE “PURA” CONTRO “ARTE UTILE”
Negli anni 50 del XIX secolo imperversava un acceso dibattito sul valore dell’arte “pura” e di quella chiamata “utile”. L’apertura politica aveva dato l’opportunità di rivedere liberamente la società in tutti i suoi aspetti ed uno di questi era la rivalutazione del ruolo di artista.
Nella prima metà del secolo il critico che sicuramente ebbe il maggiore influsso fu Belinskij che patrocinò tutte le più innovative correnti letterarie del suo periodo, come la “scuola naturale”. La sua critica consisteva di due tratti complementari:
1) il costante riferimento dell’opera d’arte al complesso di dati reali – la società nel suo sviluppo – che in essa si rispecchiano e
2) la necessità di dar conto della specificità estetica del complesso dei procedimenti artistici.
E come se nella critica della seconda metà degli anni cinquanta i due fattori si separassero.
Al rapporto fra arte e realtà si dedicano gli scrittori impegnati Černyševskij e Dobroljubov, mentre l’estetica tocca a un terzetto di critici composto da Bòtkin, Annenkov e Družinin, che influenzarono per esempio profondamente Tolstoj, che li definisce persino un “triumvirato per me inestimabile” (p425).
Esisteva, per esempio, un gruppo di critici formato da Botkin, Ánnenkov e Družinin che si opponeva fermamente alla strumentalizzazione dell’arte per fini politici o di matrice sociale. I loro romanzi spesso erano commerciali e mondani e perivi di qualsiasi impegno sociale. Družinin contrappone agli scritti di autori impegnati un intervento in difesa di Puškin come scrittore “rasserenante”, esponente massimo di un’arte pura, priva di bassa materialità propria delle nuove correnti. Annenkov e Botkin, entrambi vicini posizioni radicali come quelle di Marx o Bakunin, si avvicinano all’ estetica “pura” nella loro maturità artistica. Era perisno stato Annenkov ad introdurre per la prima volta nella critica nel 1848 il termine “realismo” per definire l’evoluzione che la letteratura russa stava passando.
La parte opposta contava anch’essa numerosi esponenti, ma la critica più assidua all’arte “per se stessa” fu portata avanti dalla rivista pietroburghese Sovremennik ( Il Compagno), fondata quasi mezzo secolo prima da Puškin stesso, che si rivolgeva ad un pubblico politicamente interessato. Anche se all’inizio la rivista era stata piattaforma per un dibatto aperto fra tutte le parti, finisce per essere monopolizzata dai critici impegnati ce militanti come Černyševskij e Dobroljubov. La redazione approfittò della alleviamento della censura negli anni 50/60 per propagare l’idea di un’ utopia socialista con l’idea centrale del homo novus, che si capacitava di sapere vivere libero da conflitti emozionali e sociali. Dopo varie critiche ai valori religiosi e sociali vigenti in quel epoca, ritenuti da loro fasulli, la redazione dovette chiudere dopo la nuova entrata in vigore di leggi che limitavano la libertà di espressione. Specialmente il critico e filosofo rivoluzionario Nikloaj Černyševskij (1828-1889), editore della rivista dal al, ebbe grande influenza sulla linea ideologica. Lui, che con i suoi scritti aveva infuocato un’intera generazioni di giovani rivoluzionari e provocatori, postulava per quanto riguarda l’estetica, che la bellezza della vita e della natura sorpassasse quella dell’arte. La creatura bella è colei nella quale vediamo la vita così com’è. Letteratura era per Černyševskij principalmente un mezzo di educazione in cui la realtà veniva riprodotta, spiegata e valutata. Nel più ideale dei casi essa l’opera letteraria aveva uno “scopo scientifico”. Così come i sostenitori dell’arte pura prediligevano il romantico Puskin, Černyševskij apprezzava la satira sociale di Gogol’ e in particolare i primi lavori di un giovane Lev Tolstoj.
Sotto l’influsso di Černyševskij anche il giovane Nikolaj Dobroljubov (1836-1861), che più tardi divenne un importante critico letterario e negli anni 60 co-direttore assieme a C. del Sovremennik scrisse che la letteratura era uno strumento per analizzare rapporti nella società. La produzione letteraria del Medioevo fino a quella recente, compreso Puškin, era per lui di poca rilevanza. Lui si occupava principalmente di letteratura contemporanea, cosa poco usuale per un critico dei suoi tempi.
Riassumendo utilizzando le prole di Dostoevskij, “una mela che si potesse mangiare” per i difensori dell’arte utile del Sovremennik, “ era meglio che una mela dipinta e un paio di stivali per loro di più valore che Raffaello e Shakespeare”
4. IL REALISMO RUSSO
Il Realismo, preparato in vari aspetti dal Romanticismo, si basa su principi quali il ruolo attivo dell’artista nella società. Il nuovo impegno politico e sociale dell’artista lo porta ad una maggiore attenzione alla vita reale e ai problemi sociali e lo induce ad attribuire dignità artistica al quotidiano e a collocare vicende e personaggi del romanzo all’interno di un preciso momento storico: la realtà in cui vive lo scrittore.
REALISMO RUSSO AL CON QUELLO EUROPEO
La prima differenza che subito salta all’occhio dell’attento osservatore è la semplice differenza nell’ampiezza del territorio. La Letteratura europea nacque e si evolse su un territorio circoscritto dove le varie nazioni nel corso dei secoli erano riuscite a ritagliarsi i loro spazi. I grandi romanzieri del XIX secolo erano figli di grandi nazioni e avevano sulle loro spalle un bagaglio di tradizioni e cultura non indifferente. Al contrario, il territorio russo è vasto, anzi vastissimo, una terra sterminata dai confini incerti e indefiniti. Celebre è la descrizione che fa Gogol’ della sua Russia nel suo romanzo “Anime morte”
“Terra di Russia, terra di Russia! io ti vedo: dalla mia incantevole, meravigliosa lontananza, io ti vedo. […] Tutto è aperto, desolato e uniforme in te; come piccoli punti, come piccoli segni, visibili appena, spiccano fra le pianure le piatte tue città: nulla che seduca e che affascini lo sguardo.
Ma che inconcepibile, misteriosa forza è dunque questa, che mi attira a te? Perché riecheggia e continuamente risuona all'orecchio la tua canzone, malinconica, e si diffonde su tutta l'ampiezza tua, da mare a mare? Cosa c'è in essa, in questa canzone? Che cosa chiama così, e singhiozza, e afferra il cuore? Che suoni son questi, che morbosamente s'insinuano e penetrano nell'anima, e s'attorcigliano al mio cuore?
Terra di Russia! Che cosa vuoi dunque da me? Quale inaccessibile legame esiste fra noi? Che hai da guardarmi così, e perché tutto quello che c'è in te si rivolge a me con questi occhi pieni di aspettative?... E ancora, pieno di stupore, rimango immobile, e già sul capo ho l'ombra di una nube minacciosa, gravida di piogge incombenti, e il pensiero ammutolisce dinanzi alla tua vastità. Che si preannuncia, da questa vastità illimitata?
Forse qui, forse in te sorgerà uno sconfinato pensiero, giacché tu stessa sei senza fine? Non potrebbe qui arrivare un eroe gigante, giacché c'è spazio abbastanza perché si sviluppi e si muova? E minacciosamente mi abbraccia la possente vastità, riflettendosi con terribile forza nel profondo del mio essere; d'una potenza arcana s'illuminano i miei occhi...
Oh sfolgorante, meravigliosa, ignota al mondo sconfinatezza! Terra di Russia!...” In genere, la corrente realista europea tende a rappresentare la vita quotidiana senza concedere più di tanto al sentimentalismo (a parte durante la fase iniziale, come in Dickens) e alle interpretazioni soggettive
La storia del romanzo russo non è una storia di continuità e i risultato ottenuti sono nettamente differenziati rispetto a quelli europei, e talvolta addirittura in opposizione ad essi.
Il genio del romanzo realista è quello di descrivere, analizzare, esplorare e accumulare i dati della realtà e dell’introspezione e diviene il primo cugino della storia.
Sono le opere di Balzac, Dickens, Zola o Proust a documentare il nostro senso del mondo e del passato. Con il crescere delle risorse tecniche e della sua solidità il realismo sviluppò ambizioni più vaste: cercò di edificare attraverso la lingua società complesse come quelle del mondo esterno. Nello sforzo maggiore ciò produsse il sogno fantastico della Comédie humaine di Balzac. Secondo l’abbozzo del 1845, l’opera doveva comprendere centotrentasette titoli diversi, in cui la vita della Francia doveva trovare la sua copia integrale. Furono proprio autori quali Balzac e Dickens per dimostrare che la società moderna e la vita quotidiana potevano fornire materiale artistico e morale non meno affascinante di quello che poeti e drammaturgi avevano trattato nella letteratura e poetica fino d allora. Ma il realismo correva un rischio non indifferente: nello sforzo di rappresentare integralmente la vita moderna, correva il rischio di trasformarsi in giornalismo.
Ma cose indusse gli scrittori europei ad interessarsi del quotidiano che li circondava? Tra fine diciottesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo sembrava che la realtà stessa assunse una coloritura più intensa. E così prima del 1860 il romanzo europeo fiorì grazie alla sfida e alla pressione della realtà. L’età della Rivoluzione dell’Impero conferì alla vita di ogni giorno la grandezza e lo splendore del mito, avvalorando definitivamente l’idea che gli artisti potessero trovare temi alti osservando la loro stessa epoca. Gli scrittori del XIX secolo ereditarono un senso particolarmente sviluppato del contenuto drammatico della loro epoca e non pensavano più che fosse necessario cercare i materiali della visione poetica nella mitologia o nella storia antica. Questo non significa tuttavia che gli scrittoi cominciassero a trattare direttamente gli avvenimenti correnti. Al contrario, cercarono d rendere il nuovo ritmo della vita nei modi in cui si manifestava nelle esperienze di uomini e donne assolutamente privi di rilevanza storica.
Ma via via che gli eventi dell’inizio del XIX secolo si trasformavano in storia, la gloria sembrò evaporare dall’atmosfera. Il periodo di eccitazione che avevano infiammato l’atmosfera e l’immaginazione si era concluso e la realtà si fece più cupa e limitata. Quella che un tempo era stata il “demone del denaro” che tanto aveva affascinato e inorridito Balzac, si era trasformata in routine disumana e crudele del capitalismo borghese della metà del Ottocento denunciata in Bleak House.
E qui il realismo si trovò di fronte ad un primo grande dilemma: lo scrittore doveva continuare a rispettare il suo patto di verosimiglianza della realtà quando quest’ultima non era più degna di essere ricreata? Il romanzo non avrebbe finito con il soccombere alla monotonia e alla falsità della materia che ne costituiva il soggetto?
Alla fine la “realtà” trionfò sul romanzo, e i romanzieri realisti se trasformarono in reporter. La dissoluzione del lavoro dell’arte sotto la pressione incalzante dei fatti può essere osservata nel modo migliore nelle opere di Zola. A Zola sia il realismo di Balzac che quello di Dickens apparivano ugualmente sospetti perché avevano entrambi permesso alla loro immaginazione di infrangere i principi “scientifici” del naturalismo. Egli deplorava in modo particolare il tentativo di Balzac di ricreare la realtà a sua propria immagine quando avrebbe dovuto fare il tutto possibile per fornire un resoconto fedele e “oggettivo” della vita contemporanea. Fortunatamente il genio di Zola, la forza delle sue immagini e la carica di passione moral con cui investì anche i passaggi che lui riteneva “scientifici” impedirono la realizzazione del suo programma.
Si può affermare quindi, che respingendo il mitico e il sovrannaturale il romanzo realista aveva rotto con la visione del mondo fondamentale dell’epica e della tragedia, ma che nel consegnarsi a un’interpretazione secolare della vita a una riproduzione realistica dell’esperienza il romanzo realista europea del Sette e dell’Ottocento aveva già fissato i suoi stessi limiti.
Gli scrittori europei avevano proclamato loro regno quello “terreno” e reale, cioè il vasto regno della psicologia umana percepita attraverso la ragione e del comportamento umano nel contesto sociale. Ma per quanto sia vasto questo regno, i suoi confini sono i confini della letteratura realista occidentale.
Lo stesso D.H. Lawrence dichiarò nel 1923 che “bisogna essere così terribilmente religiosi per essere un artista” (D.H Lawrence, Studies in Classic American Literature, New York, 1923) ed è proprio da questa frase che la differenza fra il realismo europeo quello può essere compresa. Se in Europa la grande tradizione del romanzo realistico aveva voluto dire che il sentimento religioso non era un ingrediente necessario di un resoconto delle cose umana, in Russia diviene un ingrediente imprescindibile se si pensa alle opere di Tolstoj e Dostoevskij, che rappresentano l’apoteosi del realismo russo.
I maestri russi sembrano raccogliere una parte della loro violenta intensità dalla materia decaduta del folklore, del melodramma e della vita religiosa.
Ovviamente però anche i russi non poterono fare a meno di confrontarsi con la materia europea e lo stesso Dostoevskij affermò che “Noi russi abbiamo due madrepatrie: la Russia e l’Europa, perfino quando ci proclamiamo slavofili” (Dostoevskij, Diario di uno scrittore, trad. E. lo Gatto, Firenze 1981). Questo rapporto ambiguo è presentato nella famosa dichiarazione di Ivan Karamazov a suo fratello:
“Io voglio viaggiare in Europa, Alëša, e me andrò di qui; so bene che partirò alla volta di un cimitero, ma del più caro dei cimiteri, sicuro! Dei cari morti riposano là, ogni pietra posta su di essa parla di una vita lontana così ardente, di un’ appassionante fede nella propria impresa, nella propria verità, nella propria lotta e nel proprio sapere, che io, lo fin d’ora, cadrò a terra, bacerò quelle pietre e vi piangerò sopra, convinto allo stesso tempo con tutto il mio cuore che quello ormai è da un pezzo un cimitero e nulla più.”
Proprio il rapporto con l’Europa era un punto che divise gli intellettuali russi, innescando feroci dibattiti. Ma sia se la rifiutassero come modello o la vedessero con entusiasmo, la maggior parte degli scrittori era concorde sul fatto che la formazione dovesse comprendere un periodo di “esilio” europeo e per molti il viaggio in Europa fu il fondamentale procedimento per la propria auto-definizione. “Per capire una cosa così enorme e terribile come la Russia”, scrisse Kireeveskij , uno dei primi slavofili, “bisogna guardarla da lontano”
Anche se il confronto con l’Europa era per molti scrittori un punto di partenza, gli scrittori russi erano alla ricerca di una propria strada. Se il realista europeo poteva lavorare su un terreno nutrito da una ricca tradizione letteraria e storica, il suo corrispondente in Russia doveva creare la sua base autonomamente e in poco tempo. Bastò l’opera di Puškin per creare la base per una tradizione. Essa incorporò una vasta gamma di modelli e influenze straniere e Dostoevskij riassume bene questo suo carattere:
“Nemmeno i più grandi fra i poeti europei hanno mai potuto incarnare in sé con tale forza il genio di un popolo straniero, per quanto vicino al loro animo… Solo Puskin, tra tutti i poeti del mondo, possiede il dono di incarnarsi completamente in una nazionalità straniera. ” (Dosto, diario di uno scrittore, trad E. loGatto, Firenze, 1981)
Altro elemento che differenzia l’Occidente dalla Russia e che incise la letteratura è la semplice differenza nell’ampiezza di territorio. Alla Russia mancava una sorta di “stabilità geografica” e il paese non era un stato nel “senso europeo” della parola. Dietro al romanzo europeo, a conferirgli stabilità e maturità, c’erano le strutture della costituzionalità e del capitalismo. Queste non esistevano nella Russia di Gogol’ o Dostoevskij. Ciò che in Russia destava l’odio e fomentava le correnti rivoluzionarie era un sistema nobiliare arretrato, che vedeva una piccolissima élite privilegiata che viveva a scapito di milioni e milioni di contadini. La borghesia che stava nascendo era riuscita a ritagliarsi solo un piccolo spazio in questo sistema.
Il romanzo europeo inoltre godeva della lunga pace post-napoleonica e la rispecchiava. I racconti di carattere realistico si concentrano dunque pienamente su vari aspetti e mali della società del tempo, cercando di riprodurli fedelmente, ma le catastrofi maggiori erano quelle private. Anche se le forze che stavano agendo in tutto l’Occidente si stavano preparando per rivoluzioni e una guerra totale, pochi romanzieri occidentali seppero cogliere e interpretare i segnali.
Al contrario il romanzo russo nacque sotto la stella del rivolgimento che si stava approssimando e la letteratura russa rispecchia l’avvicinarsi dell’imminente rivoluzione. Per usare le parole del il filosofo Berdjaev: “I grandi scrittori russi del diciannovesimo secolo hanno sentito che la Russia era sull’orlo di un abisso in cui sarebbe precipitata; le loro opere riflettono la rivoluzione che stava avvenendo negli animi così come quella che si stava avvicinando” (N.A Berdjaev, Le fonti e lo spirito del comunismo russo, Milano, 1945). Con la letteratura vera e propria si andarono a intrecciare sempre più scritti di carattere sociale, che in un certo senso cercavano di rispecchiare gli umori, le recriminazioni e le speranze dell’opinione pubblica.
Le realtà che si offrivano agli scrittoi russi del XIX secolo era effettivamente piene estreme: un despotismo opprimente, intellettuali dotati ma privi di radici e che le andavano a ricercare o all’estero a nelle idealizzate masse contadine, le furiose dispute fra slavofili e occidentalisti, atei e credenti.
Soprattutto la componente religiosa non è da sottovalutare. In genere, la corrente realista europea tende a rappresentare la vita quotidiana senza concedere più di tanto al sentimentalismo (a parte durante la fase iniziale, come in Dickens) e alle interpretazioni soggettive. La tradizione di Balzac, Dickens e Flaubert, per non parlare di Zola, era secolare e lasciava poco spazio alla religione. L’arte di Tolstoj o Dostoevskij è invece permeata da una religiosità che assume mille sfumature. L’esistenza di Dio era il punto focale del loro pensiero. Anche le la religiosità assume innumerevoli sfumature, sia nei Fratelli Karamazov che in Anna Karenina c’è quella che, sempre Berdjaev , ha chiamato “la ricerca della salvezza dell’umanità”. Gli esiti di questa ricerca variano da autore a autore e spaziano dalla dimensione individuale degli individui di Dostoevskij all’indagine sulla società intera di Tolstoj . E’ proprio questa componente religiosa, che per la sua umanità e pietà per “l’uomo offeso” e per la sua ricerca si soluzioni a interrogativi morali, a distinguere il realismo russo da quello europeo.
L’ESPLOSIONE NARRATIVA NEGLI ANNI 50 E 60
Nella prima metà degli anni cinquanta la letteratura russa versa, in quanto all’esaurirsi di un intero ciclo, in apparentemente cattive acque. A parte alcuni esempi di eccellenza, come Turgenev, e con la morte di Gogol’ qualcosa è davvero giunto a termine. Eppure fra gli anni cinquanta e sessanta la letteratura russa vive una vera e propria esplosione che produrrà le opere ancora oggi apprezzate in tutto il mondo.
Negli anni precedenti era lentamente maturata la poetica insieme ai paradigmi ideologici di riferimento, ma era la accelerazione della storia avvenuta in quegli anni ad avere dato la spinta necessaria a una tale fioritura letteraria.
L’esplosione della narrativa russa va a pari passo con gli eventi socio politici di quegli anni e si grossolanamente suddividere in quattro fasi:
1) 1856-57: con il boom finanziario, l’inizio dei progetti riformisti e dei dibattiti fra occidentalisti e slavofili sul futuro assetto socioeconomico della Russia la letteratura porta a maturazione temi che già da tempo si erano delineati. Uno dei grandi temi è il tema del tramonto delle antiche stirpi nobili. Questa decadenza è espressa principalmente nella forma di epos familiare, con la figura dell’ “uomo inutile”, che fino ad allora aveva solo vissuto dei suoi privilegi e nulla aveva da dare alla società, nuove , aggressive figure sociali che in quegli anni apparivano sempre più numerose e la ricerca di un contatto con il folklore e l’immaginario popolare.
2) 1859-60: in questi anni i temi non variano particolarmente, ma il tono si fa più cupo e teso, sia per le turbolenze economiche, sia per le furiose lotte politiche che erano nate attorno al tema della liberazione dei servi. Non sono è neanche da sottovalutare l’influsso esercitato da critici letterari come Dobroljubov, editore del Sovremennik.
3) 1861-63: è il momento dei grandi temi civili. Il fermento civile e le speranze suscitate dall’abolizione della servitù indussero all’impegno perfino gli intellettuali più umbratili e disimpegnati. I temi trattati spaziano dall’apologia rivoluzionaria tessuta da Černyševkij, alla polemica antiradicale trattata da Turgenev in “Pardi e figli”, dalla denuncia degli orrori carcerari di Dostoevskij, all’idealizzazione dell’aristocrazia boiara di Tolstoj.
Per la prima volta, in oltrem irrompono nel panorama letterario anche validissimi scrittori di origine plebea (Levitov, Pomjalovskij, Uspenskij,…)
4) 1863-66: Sono questi gli anni che rivoluzionarono la letteratura russa con romanzi ineguagliabili. I processi socioeconomici degli ultimi vent’anni avevano avuto un carattere di massa e la società era mutata radicalmente, sconvolgendo i rapporti sociali che fino ad allora vigevano. Molti scrittori, trascinati dai cambiamenti, si spinsero oltre ciò che conoscevano, per sondare questo nuovo mondo che li circondava cercando di esplicarlo.
Ben presto le illusioni si arenano contro la crisi economica e la repressine esercitata dalla corona. Anche se il periodo di fermento giunge al termine, la Russia non torna al punto di partenza. Il sentimento che affligge la generazione che aveva vissuto un epoca di grandi speranze, si ritrova a sperimentare la sensazione di un grande fallimento storico. La cultura russa, nel triennio successivo si proietta verso la metafisica, allontanandosi dalla realtà concreta che precedentemente così tanti spunti aveva dato. Nella seconda metà degli anni sessanta gli scrittori iniziano a elaborare rappresentazioni di carattere mitico per lenire le confitte subite sul terreno “reale” storico: germina il personalismo cristiano e il catastrofismo di Destoevskij, l’esistenzialismo straniante di Tolstoj simbolismo schonpehaueriano del tardo Turgenev.
DUE ADULTERE: MADAME BOVARY E ANNA KARENINA AL CONFRONTO
Il confronto fra queste due donne, Anna Karenina e Emma Bovary, le due protagoniste indiscusse del romanzo realista del XIX secolo, è molto classico. . Ma prima di iniziare a paragonare le due donne, bisogna tenere conto della diversità dei due romanzi.
Quando Tolstoj pubblicò il suo romanzo in molti pensarono che volesse sfidare il capolavoro di Flaubert, apparso poco prima. E’ fuori discussione infatti che Tolstoj non conoscesse Madame Bovary, dato che si trovava a Parigi proprio nel periodo in Flaubert pubblicava la sua opera a puntate sulla “Revue de Paris” (1856-57). Ma dai diari di Tolstoj è emerso che l’idea del adulterio e della vendetta occupava la sua mente almeno fin dal 1851.
Entrambi i romanzi sono capolavori nel loro genere. Zola vedeva in Madame Bovary la somma del realismo, la suprema opera che culminava l’opera iniziata da Balzac.
Tuttavia anche se le due opere sono spesso attribuite grossolanamente alla stessa corrente letteraria, sono poco simili. Anna Karenina è un’ opera incomparabilmente più grande e può essere propriamente considerata un “epopea in prosa”. La nozione di epico comprende la sensazione di immensità e serietà, di spaziosità temporale e eroismo, di serenità e franchezza narrativa che non descriveva solo una intima realtà casalinga borghese, bensì una società fin nei suoi minimi dettagli. La storia fra Anna Karenina e il conte Vrònskij si intreccia a numerose altre vicende narrate con altrettanta minuziosità e i temi trattati spaziano dal adulterio alla vendetta, ma non si fermano a argomenti così superficiali. Il romanzo tolstojano convoglia una massa esplicita di riflessioni religiose, etiche e morali che emergono dall’intreccio del racconto.
Flaubert, nella sua opera si è concentrato a descrivere un pezzo di vita tratto dalla realtà borghese che lui così tanto detestava. Il modo di trattare gli oggetti era fondamentale nella concezione dell’autore e su di essi riversava tutta le sue immense risorse e le sottigliezze del suo raffinato vocabolario. L’uso di una lingua rara e la prevalenza delle descrizioni informali sono il procedimento attraverso cui il realismo francese tentava di registrare con minuziosità , alcuni brani di vita contemporanea. Lo scopo di Flaubert era quello di ritrarre la realtà tale quale e si deve dire che per fortuna fallì in questo intento, dato che in questo caso avrebbe semplicemente concorso con l’emergente fotografia di quei tempi. All’ inizio del romanzo troviamo una descrizione del berretto di Charles Bovary:
« C’était une de ces coiffures d’ordre composite, où l’on retrouve les éléments du bonnet à poil, du chapska, du chapeau rond, de la casquette de loutre et du bonnet de coton, une de ces pauvres choses, enfin, dont la laideur muette a des profondeurs d’expression comme le visage d’un imbécile. Ovoïde et renflée de baleines, elle commençait par trois boudins circulaires ; puis s’alternaient, séparés par une bande rouge, des losanges de velours et de poil lapin ; venait ensuite une façon de sac qui se terminait par un polygone cartonné, couvert d’une broderie en soutache compliquée, et d’où pendait, au bout d’un long cordon trop mince, un petit croisillon de fils d’or, en manière de gland. Elle était neuve ; la visière brillant. »
Anche se a prima vista potrebbe sembrare una descrizione oggettiva del ridicolo copricapo di Charles, in realtà proprio l’ironia della descrizione mette in risalto la mediocrità del personaggio e funge da presagio per le tragedie che lo colpiranno durante la vita.
Flaubert quindi esprime un giudizio nella sua opera e quello più inclemente è quello su Emma. La perseguita senza pietà, senza pause, quasi con malignità. Non era tanto la moralità dubbia della donna ad offenderlo, ma piuttosto i suoi patetici sforzi di vivere la vita immaginaria delle eroine romantiche delle sue letture giovanili. La realtà che Flaubert descriveva era una realtà a lui stessa molesta e forse si può dire che Flaubert stesso avrebbe accettato di definire la sua attenzione per il mediocre mondo borghese, un’ “attenzione al banale”. Ma forse è proprio nella scelta del soggetto così delimitato, mediocre e nell’enfasi per i dettagli che risiede il limite del romanzo flaubertiano. Sartre stesso scrisse di Flaubert che “circonda l’oggetto, lo afferra, lo immobilizza e gli spezza la spina dorsale […] Il determinismo del romanzo naturalistico tritura la vita e sostituisce alle attenzioni umane le reazioni uniformi dell’automa”. Questo giudizio forse è un po’ troppo duro, ma sicuramente Madame Bovary getta luce sui limiti del romanzo realista europeo.
Anna Karenina al contrario non si limita a ritrarre il mediocri pezzi di vita, anzi, l’intento di Tolstoj era quello di ritrarre la vita in tutta la sua pienezza gloriosa. Senza perdere l’attenzione per il dettaglio, per la condizione umana, l’analisi di Tolstoj è più profonda, ambia e forse anche umana.
Questa differenza nel modo di presentare la vita è forse più chiara nel momento della morte delle due donne.
Cependant, elle n’était pas aussi pâle, et son visage avait une expression de sérénité comme si le sacrement l’eût guérie.
Le prêtre ne manqua point d’en faire l’observation, il expliqua même à Bovary que le Seigneur, quelquefois, prolongeait l’existence des personnes lorsqu’il le jugeait convenable pour le salut ; et Charles se rappela un jour où ainsi près de mourir, elle avait reçu la communion.
« Il ne fallait peut-être pas se désespérer », pansai-t-il.
En effet, elle regarda tout autour d’elle, lentement, comme quelqu’un qui se réveille d’un songe, puis, d’une voix distincte, elle demanda son miroir, et elle resta penchée dessus quelque temps, jusqu’au moment où de grosses larmes lui découlèrent des yeux. Alors elle se renversa la tête en poussant un soupir et retomba sur l’oreiller.
Sa poitrine aussitôt se mit à haleter rapidement. La langue tout entière lui sortit hors de la bouche ; ses yeux, en roulant, pâlissaient comme deux globes de lampe qui s’éteignent, à la croire déjà mort, sans l’effrayante accélération de ses côtes, secouées par un souffle furieux, comme si l’âme eût fait des bonds pour se détacher. Félicité s’agenouilla devant le crucifix, et le pharmacien lui-même fléchit un peu les jarrets, tandis que M. Canivet regardait vaguement sur la place. Bournisien s’était de l’autre côté, à genoux, les bras étendus vers Emma. Il avait pris ses mains et les serrait, tressaillant à chaque battement de son cœur, comme au contrecoup d’une ruine qui tombe. À mesure que la râle devenait plus fort, l’ecclésiastique précipitait ses oraisons : elles se mêlaient aux sanglots étouffés de Bovary, et quelquefois tout semblait disparaître dans le sourd murmure des syllabes latines, qui tintaient comme un glas de cloche.
Tout à coup, on entendit sur le trottoir un bruit de gros sabots, avec le frôlement d’un bâton ; et une voix s’éleva une voix rauque, qui chantait :
Souvent la chaleur d’un beau jour
Fait rêver fillette à l’amour.
Emma se releva comme un cadavre que l’on galvanise, les cheveux dénoués, la prunelle fixe, béante.
Pour amasser diligemment
Les épi que la faux moissonne,
Ma Nanette va s’inclinait
Vers le sillon qui nous les donne.
« L’Aveugle ! » s’écria-t-elle.
Et Emma se mit à rire, d’un rire atroce, frénétique, désespéré, croyant voir la face hideuse du misérable, qui se dressait dans les ténèbres éternelles comme un épouvantement.
Il souffla bien fort ce jour-là,
Et le jupon court s’envola !
Une convulsion la rabattit sur le matelas. Tous s’approchèrent. Elle n’existait plus.
Ciò che colpisce del brano è la meticolosità e la freddezza quasi clinica con cui Flaubert descrive il processo di morte di Emma. All’inizio viene ancora una volta sottolineata la mediocrità di Charles, che dal primo brano in cui viene descritto il suo copricapo non cambia per niente. Nonostante i ripetuti tradimenti della moglie, egli rimane cieco all’evidenza. Il suo amore non si affievolisce e al capezzale di Emma prova la disperazione provata per la morte di Emma è sincera. Ciò che per un disattento lettore potrebbe sembrare una prova d’amore meritevole, per Flaubert in realtà era la prova conclusiva dell’appartenenza di Charles alla classe borghese ottusa e disprezzevole.
Ancora una volta la descrizione è ricca di particolari e la descrizione stessa della morte sembra acquistare più importanza dello svanire delle ridicola figura di Emma. Perché proprio di questo si tratta, di uno svanire. Flaubert non azzarda alcuna ipotesi su cosa potrebbe esserci dopo la morte e per lui, che nel suo romanzo non vuole trasmettere alcuna idea, ciò non ha alcuna rilevanza.
Il momento di morte di Anna è centrato su tutt’altro. La sua morte è la fine di un lungo processo che culmina con la speranza di una risurrezione. Anna nell’ultimo istante della sua vita si affida a Dio.
Quando il treno arrivò in stazione, Anna scese in mezzo alla folla degli altri passeggeri e, scansandosi da loro come fossero degli appestati, si fermò sulla banchina, cercando di ricordare perché venuta lì e che cosa aveva intenzione di fare. Tutto quello che prima le pareva possibile, adesso era così difficile da mattere a fuoco, specialmente a quella folla vociante di gente orrenda, che non la lasciavano in pace. Ora i facchini le correvano in contro, offrendole i loro servigi, ora dei giovani, battendo i tacchi sulle assi della banchina e parlando a voce alta, si voltavano a guardarla, ora i passanti si facevano da parte in modo maldestro.
[…] “Dio mio, dove vado?” pensava, allontanandosi sempre più lunga la banchina. Giunta alla fine si fermò. Le donne e i bambini che erano venuti a prendere un uomo con gli occhiali e che ridevano e parlavano a voce alta, quando lei li raggiunse ammutolirono squadrandola. Lei affrettò il passo e si allontanò da loro verso il bordo della banchina. Stava arrivando un treno merci. La banchina tremò, elei ebbe la sensazione di essere ripartita.
E improvvisamente, ricordando l’uomo travolto il giorno del suo primo incontro con Vrónskij, capì cosa doveva fare. Discese con passo veloce, leggero, i gradini che portavano alla pompa dell’acqua alle rotaie, si fermò accanto al treno che rasentava nel passaggio. Guardava la parte inferiore dei vagoni, le viti, le catene, le alte ruote di ghisa del primo vagone che scivolava lentamente, e a occhio cercava di calcolare il centro fra le ruote anteriori e quelle posteriori, e il momento in cui il centro sarebbe arrivato davanti a lei.
“Là ! “ si diceva, guardando l’ombra del vagone, la sabbia mista a carbone di cui erano cosparse le traversine, “là, proprio al centro, così lo punirò, e mi libererò di tutti e di me stessa.”
Avrebbe voluto cadere sotto il primo vagone, arrivato con la parte centrale alla sua altezza. Ma il sacchetto rosso che provò a sfilarsi dal braccio la trattenne, e ormai era tardi: il centro era passato. Bisognava aspettare il vagone successivo.
La afferrò una sensazione simile a quello che provava quando, facendo il bagno, si accingeva a entrare nell’acqua, e si fece il segno della croce. Il gesto abituale di farsi la croce le ridestò nell’anima una serie di ricordi di quando era ancora ragazza e bambina, e a un tratto la tenebra in cui vedeva avvolto tutto si lacerò, e la vita le si presentò per un istante con tutte le luminose gioie del passato. Ma non distoglieva gli occhi dalle ruote del secondo vagone che si stava avvicinando. Nel momento esatto in cu il centro delle ruote arrivò alla sua altezza, buttò via il sacchetto rosso e, incassata la testa fra le spalle, cadde sulle mani sotto il vagone, e con un movimento leggero, come se intendesse rialzarsi subito subito, si mise in ginocchio. In quello stesso istante inorridì di quel che stava facendo. “Dove sono? Che cosa faccio? Perché?”. Avrebbe voluto sollevarsi, gettarsi da un lato; ma qualcosa di enorme, d’inesorabile, la urtò alla testa e la trascinò per la schiena. “Signore, perdonami tutto!” proferì, sentendo che era impossibile lottare. Un mužìk¹ borbottando, armeggiava sopra il ferro. E la candela, al cui chiarore aveva letto il libro pieno di angosce, d’inganni, di dolore e di male, avvampò d’una luce più vivida che mai, le illuminò tutto quel che prima era nell’oscurità, crepitò, prese ad offuscarsi e si spense per sempre.
¹ paesano, contadino
Frau von Briest schwieg. Effi aber schob sich etwas höher hinauf und sagte dann: »Und da ich nun mal von alten Zeiten und auch von Innstetten gesprochen habe, muß ich dir doch noch etwas sagen, liebe Mama.« »Du regst dich auf, Effi.« »Nein, nein; etwas von der Seele heruntersprechen, das regt mich nicht auf, das macht still. Und da wollte ich dir denn sagen: Ich sterbe mit Gott und Menschen versöhnt, auch versöhnt mit ihm.« »Warst du denn in deiner Seele in so großer Bitterkeit mit ihm? Eigentlich, verzeih mir, meine liebe Effi, daß ich das jetzt noch sage, eigentlich hast du doch euer Leid heraufbeschworen.« Effi nickte. »Ja, Mama. Und traurig, daß es so ist. Aber als dann all das Schreckliche kam, und zuletzt das mit Annie, du weißt schon, da hab ich doch, wenn ich das lächerliche Wort gebrauchen darf, den Spieß umgekehrt und habe mich ganz ernsthaft in den Gedanken hineingelebt, er sei schuld, weil er nüchtern und berechnend gewesen sei und zuletzt auch noch grausam. Und da sind
Verwünschungen gegen ihn über meine Lippen gekommen.« »Und das bedrückt dich jetzt?« »Ja. Und es liegt mir daran, daß er erfährt, wie mir hier in meinen Krankheitstagen, die doch fast meine schönsten gewesen sind, wie mir hier klargeworden, daß er in allem recht gehandelt. In der
Geschichte mit dem armen Crampas - ja, was sollte er am Ende anders tun? Und dann, womit er mich am tiefsten verletzte, daß er mein eigen Kind in einer Art Abwehr gegen mich erzogen hat, so hart es mir ankommt und so weh es mir tut, er hat auch darin recht gehabt. Laß ihn das wissen, daß ich in dieser Überzeugung gestorben bin. Es wird ihn trösten, aufrichten, vielleicht versöhnen. Denn er hatte viel Gutes in seiner Natur und war so edel, wie jemand sein kann, der ohne rechte Liebe ist.« Frau von Briest sah, daß Effi erschöpft war und zu schlafen schien oder schlafen wollte. Sie erhob sich leise von ihrem Platz und ging. Indessen kaum daß sie fort war, erhob sich auch Effi und setzte sich an das offene Fenster, um noch einmal die kühle Nachtluft einzusaugen. Die Sterne flimmerten, und im Park regte sich kein Blatt. Aber je länger sie hinaushorchte, je deutlicher hörte sie wieder, daß es wie ein feines Rieseln auf die Platanen niederfiel. Ein Gefühl der Befreiung überkam sie. »Ruhe, Ruhe.«