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Talent Management E Valorizzazione Delle Persone

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Words 16032
Pages 65
U N I V E R S I T À D E G L I S T U D I D I G ENOVA
DIPARTIMENTO DI ECONOMIA

CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA AZIENDALE

Elaborato scritto per la prova finale

in Organizzazione Aziendale

Talent Management e Valorizzazione delle persone

Docente di riferimento: Angelo Gasparre

Candidato: Federico Minato

Anno accademico 2013-2014
Sommario
Introduzione 2 Capitolo I - Il Talent Management 7 1.1 - L'impresa che passa dal fordismo ad una visione più incentrata sulle persone 7 1.2 - Imprese moderne e concetto introdotto da McKinsey (1997): introduzione al Talent management 11 1.3 - I quattro Pilastri del Talento Management 12 1.3.1 - Recruitment 13 1.3.2 - Performance management 14 1.3.3 - Compensation management 16 1.3.4 - Learning and development 18 Capitolo II - I problemi relativi all'assunzione dei talenti dall'esterno 20 2.1 - I problemi generati nell’ambiente interno 20 2.2 - I problemi derivanti dall’incertezza nell’ambiente esterno 29 Capitolo III - La ripresa della pratica dello sviluppo interno dei talenti 35 Riferimenti bibliografici 52 Bibliografia 52 Libri 52 Articoli scientifici 52 Risorse Web 53

Introduzione

Lo scopo di questa tesi è quello di affrontare il tema della Gestione del Talento, tramite una visione critica della stessa.
L'elaborato si basa sull'analisi incrociata di una serie di valutazioni ed osservazioni proposte da più autori, ottenute tramite ricerche e studi sul suddetto tema.
Dunque, in questa sede si cercherà di analizzare quale sia stata l'evoluzione delle tecniche di Talent Management nel corso dei decenni, spiegando le motivazioni che hanno spinto le imprese ad avventurarsi nell'utilizzo di nuove metodologie per la gestione stessa e le problematiche che ne hanno determinato il fallimento.
In particolare si osserverà come già negli anni '50 fosse già comune fra le imprese l'utilizzo di tecniche di sviluppo del proprio personale dipendente.
Era l'epoca dell'Uomo Organizzativo, dove i lavoratori all'interno di un'impresa tendenzialmente vi restavano a vita, consentendo all'impresa di personalizzare lo sviluppo degli stessi.
I cambiamenti ambientali degli anni '70 segnarono un declino nell'utilizzo di queste pratiche.
L'avvento di una più precisa contabilità, unito alla possibilità di disporre di un numero maggiore di lavoratori altamente qualificati, consentì alle imprese, da un lato di riconoscere la reale entità di alcuni costi pluriennali, prima non considerati, relativi allo sviluppo del talento.
Fu così che le aziende iniziarono a praticare un nuovo sistema per reperire i lavoratori, in particolare quelli maggiormente qualificati, in grado di fare la differenza a livello produttivo.
Esse, infatti, iniziarono ad assumere i c.d. talenti in via esterna, in modo da non dover più sobbarcarsi gli oneri necessari per il loro lungo percorso di sviluppo.
Tale pratica si sviluppò esponenzialmente all'inizio degli anni '90, quando le imprese iniziarono quella che Ed Michaels e gli altri ricercatori di McKinsey definirono una "Guerra per il Talento".
Le imprese in questo periodo dunque si diedero ferocemente battaglia le une con le altre e finirono per rendere quella che all'inizio poteva essere una valida alternativa allo sviluppo interno, come uno strumento deleterio, giacché usato in misura smodata.
L'assunzione dall'esterno, operata sistematicamente dalle imprese, generò, infatti, un correlato problema di retention, poiché i lavoratori più talentuosi, divenuti i padroni del mercato del lavoro, ricevevano costantemente offerte lavorative, rendendo difficile per una singola impresa la possibilità di mantenerli alle proprie dipendenze per un lungo periodo.
Inoltre, le imprese, assumendo dall'esterno, ebbero numerosi problemi a livello organizzativo.
I soggetti economici dell'epoca, infatti, non riconoscevano i fattori organizzativi che influenzavano in maniera più o meno diretta le performance dei top performer.
Si presumeva, erroneamente, che i talenti avrebbero continuato a produrre ai loro stessi livelli anche cambiando organizzazione, mentre l'evidenza empirica negò fortemente quest’affermazione.
In aggiunta, l'impatto che i top performer neoassunti ebbero sul resto della popolazione aziendale fu deleterio anche per le performance di questi ultimi, demotivati dall'avvento di lavoratori che probabilmente avrebbero occupato i posti ai quali essi ambivano.
Alcuni autori moderni hanno evidenziato questi fattori, elevandoli a cause del fallimento del modello dell'outside hiring.
Essi propongono una soluzione mista tra sviluppo interno ed assunzione, dove quest'ultima assume però un ruolo marginale.
Le teorie proposte cercano di adattarsi alla realtà odierna, una realtà fatta di incertezze economiche e maggiore difficoltà nel predire il futuro di una impresa.
Tali tecniche mirano ad una valorizzazione complessiva del lavoratore che risulta essere si, più onerosa, ma anche necessaria.
Esse non risolvono, però, un ultimo problema, ossia il fatto che, come le altre metodologie che le hanno precedute, esse hanno validità fintanto che la situazione ambientale non cambia, ma non possono considerarsi una soluzione valida in maniera assoluta.
La scelta di effettuare una valorizzazione completa del lavoratore, cercando, in particolare, di effettuare analisi di costo basate su delle previsioni i cui dati richiedono molto tempo e onerosità per essere reperiti, potrebbe infatti non essere più necessaria, nel caso in cui venissero meno le condizioni di incertezza nelle quali la società occidentale ha versato negli ultimi 7-8 anni.
Effettuare previsioni a brevissimo termine sicuramente genererebbe un costo non effettivamente utile, rischiando di porre l'impresa in una situazione di svantaggio economico rispetto ai concorrenti.
La validità dei modelli di Gestione del Talento, dunque, varia a seconda del periodo storico, pertanto la possibilità di prevedere un modello valido nei prossimi anni è scarsa ed anzi, non dovrebbe essere neppure presa in considerazione.
L’unica analisi che può essere effettuata è, al più, riferibile ad un arco temporale assai ristretto, nel quale rimangano immutate le condizioni ambientali.
La tesi si articola in tre capitoli.
Nel primo capitolo viene affrontato il tema del Talent Management dal punto di vista storico.
In esso viene trattata l'evoluzione storica che ha portato alla concezione di Talento, passando per le varie tappe storiche che hanno portato dal Fordismo-Taylorismo alla creazione di una concezione maggiormente incentrata sulle risorse umane, fino ad arrivare a considerare i top performer come l'apice dell'organizzazione, un punto fondamentale nella struttura organizzativa.
Sempre nel primo capitolo viene analizzato il concetto base di Gestione del Talento proposto dai ricercatori di McKinsey, i primi a coniare il termine "Guerra per il Talento", nel 1997.
La parte rimanente del capitolo si articola seguendo i quattro pilastri che caratterizzano la Gestione del Talento stessa, ossia l'assunzione, la gestione della performance, la gestione della remunerazione ed, infine, lo sviluppo interno e l'apprendimento.
In particolare il primo e l'ultimo pilastro saranno i punti cardine su cui si articolerà la discussione dell'intesa tesi.
Nel secondo capitolo troviamo le maggiori critiche operate all'assunzione dei talenti dall'esterno, vero motore della concezione del talento negli anni '90.
Esse si dividono in due categorie: problematiche derivanti dall'ambiente esterno e problematiche generate nell'ambiente interno.
Con riferimento alle prime, troviamo le difficoltà dell'impresa nel determinare il proprio futuro, con conseguenti rischi in termini di possibilità di far combaciare le future richieste dei lavoratori assumibili dall'esterno con le necessità dell'impresa.
L'aspetto più rilevante della critica riguarda, comunque, le problematiche che l'assunzione dell'impresa genera nell'ambiente interno.
Questo capitolo si incentra particolarmente su tale aspetto, considerando gli effetti negativi, in termini di produttività, patiti da un top performer una volta cambiata la struttura organizzativa nella quale egli opera, oltre ai problemi che ricadono sugli altri lavoratori, i quali, vedendo le loro possibilità di avanzamento nella carriera precluse dall'arrivo di suddetti talenti, potrebbero ritrovarsi demoralizzati e demotivati, inficiando ulteriormente la produttività globale d'impresa.
Nel terzo ed ultimo capitolo troviamo infine le teorie di due autori, Groysberg e Cappelli, i quali provano a dimostrare la necessità di un nuovo paradigma in ambito organizzativo, maggiormente incentrato sullo sviluppo interno dei lavoratori.
Essi non vogliono così far intendere un ritorno alle proposte degli anni '50, in quanto sono ben consci delle differenze tra l'epoca odierna e quella dell'Uomo Organizzativo.
Tuttavia sono proprio queste differenze ambientali ad aver determinato, secondo gli autori, in particolar modo Cappelli, il declino non solo del precedente modello di sviluppo interno, ma anche quello dell'assunzione dall'esterno.
Le loro concezioni vertono, dunque, su uno sviluppo dei talenti adatto ai tempi, che si basi su analisi onerose, ma necessarie al fine di poter operare in un clima di incertezza ambientale.
Il capitolo comprende le proposte dei due autori, in particolare i quattro principi elaborati dal prof. Cappelli nel suo "Talent on Demand: Managing Talent in an Age of Uncertainty", ossia rendere l'opzione tra sviluppo esterno ed assunzione al pari di una scelta di Make or Buy, adattare lo sviluppo interno all'incertezza dell'ambiente esterno, generare un ROI positivo dallo sviluppo stesso e creare un mercato del lavoro interno all'impresa al fine di facilitare la retention degli stessi lavoratori.
In quest’ultima parte trova spazio un approfondimento riguardo alle appena citate tecniche di gestione proposte, con un commento finale circa il problema della validità dei modelli di Talent Management di cui prima.

Capitolo I - Il Talent Management 1.1 - L'impresa che passa dal fordismo ad una visione più incentrata sulle persone

Nel corso dell'ultimo secolo, la realtà organizzativa aziendale ha mutato radicalmente struttura, adeguandosi al contesto sociale di riferimento e condizionando, al contempo, lo stesso.
Il primo esempio storico in questo senso si ha all'inizio del ventesimo secolo, agli albori della teoria organizzativa, con l'avvento del taylorismo e, susseguentemente, del fordismo.
La realtà sociale americana dell'inizio del 1900 presentava una serie di fattori peculiari: disorganizzazione generale delle imprese, presenza di soldiering tra i lavoratori, mancanza di lavoratori addestrati ed abili, incremento imponente del mercato interno e gigantismo industriale.
Fu in questa realtà che Frederick Taylor si inserì e cercò un metodo scientifico, “positivista”, per aumentare l'efficienza industriale e determinare una susseguente maggiore produttività.
Le sue opere, riassumibili nella sua monografia "The Principles of Scientific Management", cambiarono radicalmente non solo la realtà industriale, ma anche quella sociale e accompagnarono inscindibilmente la Seconda Rivoluzione industriale americana.
Il modo di produrre Made in USA diventò dunque il modello vincente e anzi in Europa venne percepito come un elemento tipico del modo di vivere americano.
Fu la società a ritenerlo valido e la neonata teoria organizzativa taylorista-fordista fu il modello con il quale esso si esplicò a livello industriale.

Come sostenuto da Giorgetti, fu infatti la società americana ad accettarlo, ad esserne "complice".
Nel secondo dopoguerra la situazione economico-sociale cambiò e si ebbero mutamenti che, inevitabilmente, determinarono un cambiamento radicale nella teoria organizzativa.
Se da un lato si registrò, infatti, un aumento del PIL pro capite molto consistente in tutto l'Occidente (quasi 4% annuo) durante gli anni della Golden Age, le turbolenze economiche degli anni '70, insieme alle trasformazioni sociali (si pensi al Movimento del 1968) determinarono uno sfaldamento dei già citati Patti Sociali.
Cambiarono le esigenze dell'ambiente in cui si immerge l'impresa e di conseguenza cambiò, come detto, la realtà organizzativa.
Il modello fordista, infatti, verso gli anni '70 cedette il passo (anche se certi aspetti sono pervenuti fino ai giorni nostri), al c.d. modello post-fordista.
Si passò dunque da un modello aprioristicamente definitivo migliore in quanto scientifico (One Best Way), ad un modello che tenesse maggiormente conto dell'ambiente circostante (One Best Fit).
Fu anzi l'ambiente ad influenzare sempre più l'impresa stessa e la sua organizzazione.
Il nuovo modello fu caratterizzato da una maggiore flessibilità rispetto al modello fordista e, soprattutto, da una maggiore rilevanza data al singolo lavoratore e al lavoro di gruppo.
In questo senso, si attivò un nuovo filone organizzativo basato sulla Gestione delle Risorse Umane.
Beer la definì come "un approccio strategico alla gestione delle risorse umane che coinvolge tutte le decisioni manageriali e le azioni che influenzano la relazione tra organizzazione ed impiegati".
Una nuova visione organizzativa, che diede maggiore centralità all'individuo all'interno dell'organizzazione.
Centralità che si trasformò in una maggiore responsabilità conferita a degli attori della realtà industriale non associati con l'alta dirigenza.
La figura dell'uomo, dunque, perse quella concezione tipicamente taylorista-fordista, dove egli corrispondeva nè più, nè meno ad una macchina (seppur con primitive forme di collaborazione tra i singoli operai) e deve essere guidato dalla figura del manager, al fine di essere reso il più efficiente possibile.

Al contrario, il soggetto iniziò ad avere:

* dapprima una maggiore discrezionalità, grazie al modello toyotista, dove si valorizza la figura dell'uomo, che può intervenire nel processo produttivo e favorire il raggiungimento della Total Quality Management * in seguito, grazie, appunto, alla scuola della HRM, gli viene addossata una sempre crescente responsabilità nel processo produttivo. L'uomo non è più visto come una macchina, ma come una risorsa, dotata di elementi di soggettività, di un vero e proprio capitale eterogeneo

Negli anni '50 e '60 iniziarono le vere pratiche di sviluppo interno del talento.
L’epoca di riferimento era quella del c.d. Uomo Organizzativo, dove le pratiche di sviluppo dei lavoratori miravano ad avere, in maniera continuativa, un numero sufficiente di lavoratori qualificati all'interno dell'impresa.
Tuttavia lo sviluppo coinvolse tutti i lavoratori, non vi era ancora una chiara esaltazione della figura del talento, che per sua natura non può altro che riferirsi a pochi soggetti.
Alla fine del secolo fu McKinsey&Company, in seguito ad una propria ricerca del 1997, a rivoluzionare ulteriormente le teorie organizzative, sviluppando un nuovo modo di intendere la gestione delle risorse umane, focalizzando l'attenzione su dei soggetti particolarmente importanti, in grado di garantire un vantaggio competitivo.
Ciò non implicò una rivoluzione completa della HRM, ma semplicemente un concentrarsi su un singolo aspetto, peculiare, fino a quel momento, scarsamente trattato.
Secondo i sondaggi fatti dai ricercatori di McKinsey, infatti, le imprese fino a quel momento avevano fatto poco o nulla in materia di gestione dei talenti, definendo l’approccio in materia “inadeguato”.

Figura 1. [ 1 ] - Risultati dei sondaggi di McKinsey del 1997 e del 2000 che evidenziano uno scarso risultato in termini di gestione dei talenti, The War For Talent, p. 9 (E. Michaels et al, 2001)

Il tutto venne riassunto nel suddetto libro, pubblicato nel 2001, intitolato "The War for Talent", il quale si concentra, appunto, sulla gestione di queste persone, in particolare su aspetti chiave quali i metodi per reclutarli e per mantenerli in azienda ed evitare che essi possano essere attirati da altre realtà lavorative, operando, ad esempio, sulla loro remunerazione.
Questo libro avrebbe in seguito segnato la storia delle organizzazioni, portando le imprese a combattersi vicendevolmente nella ricerca dei migliori talenti da assumere e detenere all'interno della propria struttura organizzativa.
Nacque così la gestione del talento.

1.2 - Imprese moderne e concetto introdotto da McKinsey (1997): introduzione al Talent management

Molto interessante diventa a questo punto cercare di capire cosa sia il talento.
Vi sono diverse definizioni di talento e nessuna di essere può essere definitiva, ad oggi, come l'unica veritiera.
Il termine talento è infatti usato comunemente per definire un soggetto dotato di capacità superiori alla media, in qualsiasi ambito.
Certamente, anche in ambito organizzativo, il talento è colui che risulta essere in possesso di qualità non comuni, o per meglio dire, uniche.
Ma anche se, dunque, risulta chiaro che in ambito organizzativo la persona dotata di un talento sia quella che ha delle capacità di leadership, piuttosto che in qualsiasi altro ambito aziendale (produttivo, comunicazionale, ecc), in grado dunque di conferire un vantaggio competitivo, più complicato risulta conferire un'unica definizione valida per tutti.
Le organizzazioni (tipico è l'esempio di Google), inoltre, scelgono le proprie definizioni di talento, piuttosto che accettare quelle accademiche, il che, aumenta ulteriormente la volatilità di tale termine.
Si può, anzi, sostenere che esse non sappiano come definire il talento, ma che si limitino a conoscere i metodi con i quali gestirlo.
La gestione del talento stesso, dunque, a differenza della gestione delle risorse umane, si basa su un elemento oggettivo di difficile collocazione, poco preciso, che ha anche portato a delle critiche riguardo l'effettiva efficacia di assumere singole "star" dal punto di vista lavorativo.
La questione è comunque rimasta irrisolta forse poiché ritenuta all'origine di poco conto: in the War for Talent, il libro che ha dato origine al filone organizzativo della gestione del talento, non vi è infatti nessuna definizione specifica di talento.
Il successivo tentativo quasi ossessivo di ottenere una definizione oggettiva del talento ha anzi, secondo alcuni autori, addirittura creato ulteriori problematiche, in quanto la maggiore presenza di definizioni genera incertezza, piuttosto che fornire spunti diversi con cui provare a dare una definizione generale.
La definizione generica e precaria di talento non precluse tuttavia a McKinsey di generare una teoria applicativa sulla gestione dello stesso.
Gli autori di The War for Talent, con tale libro, non intendevano infatti dare una definizione di che cosa fosse nello specifico il talento, ma di dimostrare che in breve vi sarebbe stata una battaglia da parte delle imprese per accaparrarsi i migliori lavoratori.
Con questo libro, dunque, essi affermarono che i lavoratori maggiormente qualificati avrebbero acquisito un fortissimo potere contrattuale nel mercato del lavoro.
I soggetti di questo tipo, infatti, sono considerati merce ben rara e la “Guerra” tra imprese accadde realmente negli anni successivi, per poi protrarsi in maniera consistente fino ai giorni nostri.
Questo perché, nonostante la elevata disoccupazione in seguito alla recente crisi finanziaria, certi tipi di imprese hanno difficoltà nel reperire quel tipo di soggetti che realmente servono, ossia quei soggetti in possesso di quelle qualità in grado di fare la differenza in maniera coerente con la strategia aziendale.

1.3 - I quattro Pilastri del Talento Management

La teoria alla base della Gestione del Talento è riassumibile in quattro elementi base: 1. Il Recruitment, ossia tutto ciò che riguarda l'acquisizione del capitale umano definibile come talento 2. Il Performance Management, ossia il controllo che l'attività del talento sia efficace ed efficiente secondo precisi standard 3. Il Compensation Management, ossia la gestione della remunerazione del talento, al fine di far si che egli abbia interesse a rimanere all'interno della struttura organizzativa e non decida di abbandonarla in favore di un'altra, preferibile alla prima 4. Il Learning and Development, ossia il costante miglioramento e sviluppo delle qualità del talento

, ognuno dei quali presenta delle specifici punti critici, i quali devono essere affrontati al fine di ottenere dal singolo talento la massima efficienza possibile ed i conseguenti vantaggi che ciò comporta a livello competitivo

1.3.1 - Recruitment

Il recruitment, ossia l’assunzione, è certamente la prima, fondamentale, parte del processo di gestione del talento, anche e soprattutto in funzione dei successivi elementi di cui si compone il talent management.
Ciò si evince anche dallo stesso “The War for Talent”, in cui si fa uno specifico riferimento ad una “rivoluzione” nel modo di assumere le persone.
Innanzitutto l’impresa dovrebbe anche cercare di trovare talenti nella misura in cui essa ne ha bisogno, dunque per specifici comparti aziendali. La ricerca dovrebbe essere continua, al fine di non farsi sfuggire delle opportunità in questo senso.
L’assunzione dovrebbe comporsi di due fasi, la selezione e l’inserimento del talento all’interno della organizzazione.
La selezione deve tenere conto del passato del soggetto. Le sue qualità, i suoi titoli, le sue eventuali esperienze lavorative. Essa è fondamentale, in quanto un errore in questa parte del processo pregiudicherebbe le restanti.
La seconda fase, invece, è di carattere amministrativo e comporta l’inserimento del soggetto all’interno della impresa.
In questa fase il soggetto viene appunto inserito nella organizzazione e testato sulla base del lavoro svolto all’interno di essa.
Una volta inserito in maniera stabile, starà all’impresa operare nelle altre fasi della gestione al fine di renderlo sempre più abile (Development&Learning Management), valutare le sue performance (Performance Management) e remunerarlo al fine di mantenerlo al proprio interno (Compensation Management).
L’impresa, oltre a cercare in maniera efficace i talenti, dovrebbe essere, dovrebbe essere il più attrattiva possibile, per essere scelta da un potenziale talento. Poiché questi potrebbe essere attratto da una organizzazione rivale, l’impresa dovrebbe infatti cercare di avere una buona immagine sul mercato del lavoro.
Offrire programmi di sviluppo (sub cap. 1.3.3) rappresenta uno dei metodi migliori per avere questa immagine nei confronti dei potenziali futuri impiegati.
Un altro elemento interessante in questo senso è sicuramente rappresentato dal collocarsi geograficamente in un posto appetibile, universalmente considerato come un buon luogo in cui lavorare e vivere.
In questo elaborato vedremo come alcune correnti di pensiero abbiano adottato una filosofia diversa dal punto di vista della gestione del talento, basata non tanto sulla rincorsa al talento, che deve dunque essere cercato sul mercato del lavoro, quanto sul loro sviluppo all'interno della realtà organizzativa.

1.3.2 - Performance management

In ambito organizzativo, con l'espressione "Performance management" si intende la gestione dei risultati ottenuti dalle singole aree produttive, oppure dalle singole persone.
Se consideriamo la gestione dei talenti essa diventa un elemento chiave, in quanto consente di valutare se e come un talento ha raggiunto un determinato risultato prefisso e, dunque, valutare il suo reale apporto (ed i vantaggi conseguiti in seguito al suo inserimento all'interno della realtà aziendale) fornito.
I risultati possono essere valutati tramite degli indicatori, ad esempio mettendo in rapporto i risultati ottenuti con i risultati prefissati, per valutare l'efficienza di un soggetto in relazione agli obbiettivi che erano stati previsti.
Ed a maggiori livelli di performance percentuali dovrebbero essere associati maggiori livelli di remunerazione, come vedremo in maniera più precisa nel capitolo sulla compensation management.
Secondo H. Augunis, la rilevanza della performance management è tale da renderlo il pilastro fondamentale per vincere la Guerra per il talento.
Egli infatti sostiene che applicando una serie di accorgimenti, esso si possa rendere strumentale al fine di vincere quella che è "una guerra inevitabile" e "necessaria per la sopravvivenza dell'organizzazione"

Tali accorgimenti sono:

1. Utilizzare la performance management per sviluppare dei programmi di sviluppo specifici per i talenti, al fine di poter valutare con precisione l'efficacia dai suddetti 2. Utilizzarla per sviluppare dei programmi di lavoro stimolanti ed interessanti, in modo che essi non subiscano le attrattive di organizzazioni rivali 3. Sviluppare dei programmi di lavoro su cui valutare i risultati che possano portare a delle possibilità di sviluppo (lavorativo, di carriera) per il talento stesso, al fine di motivarlo e vedere chi è realmente un top-performer 4. Fornire una remunerazione adeguata (anche sotto forma di aumenti/premi) al lavoro svolto dai soggetti che, in seguito alle analisi sulla performance, hanno ottenuto i migliori risultati, al fine di aumentare le possibilità di mantenerli all'interno della propria organizzazione

Sfruttando questi quattro elementi, secondo l'autore, si può permettere all'impresa mantenere i talenti al suo interno, individuando, in particolare, coloro che sono veramente in grado di fornire un vantaggio all'impresa stessa.

1.3.3 - Compensation management

Il terzo pilastro del Talent management è la gestione della remunerazione, ossia valutare in quali termini remunerare un talento al fine di renderlo soddisfatto e non permettere ad organizzazioni rivali di accaparrarsi i suoi servizi, senza, ovviamente, rendere tale compensazione non redditizia dal punto di vista aziendale.
Vi sono diversi modi per remunerare un lavoratore: si parte dallo stipendio base, al bonus susseguente al raggiungimento di certi obbiettivi (frequente è stato il duramente criticato utilizzo della cessione di stock options agli amministratori che raggiungevano certi elevati livelli di profitto in un determinato periodo di tempo), fino ad arrivare a remunerazioni non-monetarie, basate su altri privilegi (ad esempio, la possibilità di disporre di una macchina privata o di un assistente).
Come già analizzato precedentemente, la gestione della remunerazione è, dunque, strettamente correlata alla gestione della performance: un soggetto è certamente meritevole di una maggiore remunerazione se è stato più produttivo.
A tal proposito si può osservare come sia largamente diffuso, in ambito organizzativo, l'utilizzo di strumenti che possano valutare il rendimento, in termini monetari, di un singolo lavoratore; su tutti il Return on Investments.
Lo scopo è infatti quello di trovare il giusto equilibrio, in modo da evitare di vedere i propri talenti migrare verso altri lidi e, al contempo, non sprecare risorse inutilmente.
Berger sostiene che si debba sviluppare un sistema di compensazione atto a condizionare tutti i soggetti presenti in una organizzazione, dividendo gli stessi in 4 categorie: * I c.d. “Superkeepers”: una piccolissima parte del totale dei dipendenti (dal 3 al 5%), i quali riescono sempre ad ottenere i risultati prefissati e fungono da stimolo per gli altri membri dell’organizzazione * I “Keepers”: essi sono in genere in una misura pari al 25%/30% del totale del parco lavoratori e ad essi dovrebbe essere garantiti continui incentivi lavorativi, in quanto sono coloro che si sono spessi distinti per le loro qualità. Anch’essi fungono da stimolo per gli altri * I “Solid Citizens”: essi rappresentano il 65% della popolazione lavorativa aziendale e sono coloro che hanno dimostrato di poter svolgere le mansioni base. Lo scopo della remunerazione dovrebbe, in questo caso, quello di spingerli a migliorare le proprie performance in modo da salire di livello nella loro carriera * I “Misfits”: coloro che si sono dimostrati non in grado di far parte dell’organizzazione, a causa di scarsi livelli di performance lavorativa o di scarsa integrazione con l’organizzazione stessa. Si può operare in due sensi: cercare di recuperare questi soggetti, migliorando i loro risultati, oppure eliminarli dalla organizzazione, in quanto essi rappresentano uno spreco di risorse, utilizzabili in maniera più consona, verso soggetti più efficienti.

Questo sistema è utile per tutto il complesso di lavoratori, in quanto permette alla remunerazione di non essere fine a se stessa, ma di essere funzionale al corretto svolgimento delle proprie mansioni di ogni lavoratore.
Essa infatti può, in questo modo, essere un elemento motivante per il lavoratore, che risulta essere sempre incentivato a dare il meglio di sé, per poter ricevere premi.
La remunerazione a premi, inoltre, svolge un ruolo chiave nella retention del lavoratore: garantire benefici ai migliori lavoratori li metterà in una condizione per cui essi difficilmente vi rinunceranno in favore di proposte lavorative esterne.
La remunerazione, infine, deve essere uno strumento strettamente collegato alla strategia aziendale.
Essa deve essere infatti strumentale agli obbiettivi strategici imposti dal management e deve mirare al loro raggiungimento.
Non avrebbe senso, infatti, remunerare maggiormente dei talenti ritenuti non importanti al fine del raggiungimento di un obbiettivo “chiave”, anche qualora essi presentino delle indubbie qualità.
La compensation management, in questo senso, svolge lo stesso ruolo del recruitment: è inutile assumere/remunerare un soggetto che non risulta effettivamente utile ai fini strategici aziendali.
Un talento, infatti, per essere tale, deve essere colui in grado di fare la differenza in ruoli chiave, molto rilevanti, per l’organizzazione. In particolare, dunque, i già citati “Superkeepers”, verso i quali occorre rivolgere il maggior numero di risorse.
Questi soggetti vanno remunerati dunque in maniera strategica, in quanto essi sono coloro che rappresentano in maniera più pura la categoria dei talenti.
In particolare vi sono due strumenti per fare ciò: * Permettere alle singole unità organizzative di personalizzare le forme di remunerazione in base ai singoli obbiettivi * Garantire maggiore discrezionalità in termini di budget ai manager delle suddette singole unità
Ciò rende più elastica e personalizzata la remunerazione, in modo da non scontrarsi con la strategia di business della singola unità e per permettere di andare maggiormente incontro alle esigenze del singolo “Superkeeper”.

1.3.4 - Learning and development

L'ultimo "pilastro" è sicuramente quello fondamentale ai fini di questo elaborato.

Esso indica lo sviluppo dei talenti che operano all’interno dell’impresa, talenti che, appunto, possono imparare, integrarsi, migliorarsi all'interno della realtà aziendale.
Vi sono diversi modi per migliorare le skills e la capacità di integrazione di un soggetto all’interno della organizzazione, reperibili sia all’interno, sia all’esterno dell’impresa.
L’addestramento, infatti può avvenire tramite il coaching interno, oppure sfruttando corsi esterni, che possono avere una durata compresa tra i pochi giorni e l’anno solare, come nel caso dei Master Executive.
In particolare, l’utilizzo di Master in Business Administration (MBA), viene effettuato qualora lo coaching interno sia carente o del tutto assente.
Questa pratica, tuttavia, deve essere coerente con la strategia di impresa, in modo da non essere inutile ai fini dell’organizzazione e risultare un mero spreco di risorse.
Essa dunque deve portare ad un miglioramento dell’operato di un soggetto in relazione alle performance chiave per il raggiungimento di determinati obbiettivi, definiti strategici.
Un ruolo innovativo viene svolto anche dall’E-Learning, che permette di svolgere corsi, anche part-time, sfruttando le potenzialità di internet. Il vantaggio dell’E-Learning è quello di poter addestrare il soggetto in qualunque parte del mondo egli sia, a costi relativamente ridotti.
Tuttavia, l’evidenza empirica dimostra che, ai fini dell’apprendimento, il talento non abbia bisogno solamente di un buon corso o di un buon addestratore, ma anche di condividere le proprie esperienze, in particolare con dei colleghi con un background etnico simile.
L’attenzione al background culturale del soggetto è rilevante, in quanto permette ad esso di trovarsi maggiormente a suo agio all’interno della struttura organizzativa.
E sempre con riferimento all’integrazione del lavoratore all’interno della realtà aziendale, diventa molto importante l’apprendimento di gruppo, il quale permette di sviluppare dei team di lavoro, che consentono, oltre al semplice apprendimento, lo sviluppo di interazioni tra i lavoratori, con benefici sia per i singoli soggetti (in termini di conoscenza e sviluppo), sia per l’organizzazione nel suo complesso (in termini di efficacia produttiva).
Si vedrà in seguito come diversi accademici abbiano orientato il proprio pensiero verso un talent management basato sullo sviluppo dei talenti, tramite le metodologie viste poc’anzi, anziché, come da prassi in tantissime realtà aziendali, cercare di assumerli dall'esterno per poi mantenerli mediante specifiche attività di gestione della performance e della remunerazione degli stessi.
Questo a causa di una serie di problematiche riguardo l’assunzione di talenti dall’esterno, che hanno fatto riflettere circa l’effettiva efficacia di tale metodo.
Tali problematiche vengono affrontate di seguito, nel secondo capitolo di questo elaborato.

Capitolo II - I problemi relativi all'assunzione dei talenti dall'esterno

2.1 - I problemi generati nell’ambiente interno

Un primo problema nell’assunzione dei talenti deriva dai metodi utilizzati nella guerra per i talenti.
Secondo quando sostenuto dal professor Jeffrey Pfeffer, le teorie elaborate in The War for Talent hanno portato ad una “guerra sbagliata”, combattuta con “mezzi sbagliati”.
Ciò è confermato anche in un articolo pubblicato nel 2004 su Harvard Business Review, noto come “The Risky Business of Hiring Stars”, dal professor Boris Groysberg, il quale muove diverse critiche al Talent Management, in particolar modo all’assunzione dei talenti dall’esterno.
Egli sostiene infatti che tale metodologia sia deleteria, figlia di una cultura errata, su cui molti managers e guru nell’ambito dell’Organizzazione Aziendale hanno puntato, rendendola inevitabilmente popolare.
Groysberg sostiene che però questa idea, “come tante altre idee molto popolari, non funziona”.
Questa affermazione assai importante e decisa deriva dallo studio svolto da Groysberg stesso e da alcuni suoi collaboratori, nel quale vengono analizzate le performance di 1052 analisti finanziari, distribuiti in 78 banche di investimento americane, per un periodo compreso tra il 1988 ed il 1996.
Un aspetto rilevante riguarda la metodologia con cui Groysberg ed i suoi definirono il talento. Mancando una definizione precisa, essi optarono per definire come tali coloro che avevano performance superiori alla media e che erano considerati tali dai loro datori di lavoro.
La scelta di utilizzare degli analisti finanziari come campo di applicazione dell’analisi statistica non fu casuale, ma dettata da una triplice motivazione:

1. In primo luogo, grazie alla grande quantità di informazioni derivanti dalla stampa e da organi di informazione specializzati, essi furono in grado di avere informazioni affidabili sull’oggetto della loro analisi. La presenza di classifiche sulle performance delle singole star del settore e dei loro movimenti da una banca di investimento all’altra permette infatti una chiara analisi nel lungo periodo, di difficile effettuazione in altri settori 2. Gli analisti finanziari sono coloro che forse maggiormente non devono cambiare radicalmente la loro vita una volta assunti da un’altra banca di investimento. La loro specializzazione non cambia, continuano ad investire quasi esclusivamente all’interno di un singolo settore, dunque essi non sono vittime di fattori esogeni che possono modificare i risultati che i ricercatori volevano ottenere 3. I datori di lavoro a capo delle banche di investimento analizzate credevano che le performance dei talenti dipendessero esclusivamente dalle qualità che essi possedevano, senza dare alcun rilievo all’organizzazione in cui essi lavoravano. In questo senso, essi avevano completamente abbracciato il mindset imposto da The War for Talent

In questo modo i ricercatori furono in grado di isolare un settore che più di tutti rappresentava ciò che stavano cercando e su cui la guerra per il talento aveva avuto un enorme risalto, forse anche per la natura di competitività che lo caratterizza.
La guerra per il talento è infatti una battaglia che le imprese combattono fra di loro principalmente al fine di accaparrarsi i migliori “singoli lavoratori”.
Ciò accade spesso anche a scapito del gruppo organizzativo nel quale i talenti lavorano.
Se si prende, ad esempio, la ricerca fatta da Groysberg, sul totale delle persone intervistate dai suoi a Wall Street, l’85% era convinto che le performance delle star del settore non dipendessero in alcun modo dall’organizzazione in cui esse lavoravano.
Dopotutto era ciò che The War for Talent aveva insegnato, in quanto era il singolo lavoratore ad avere potere contrattuale e a poter decidere il futuro del mercato del lavoro, solo in virtù delle sue enormi capacità.
Tale enfasi sul singolo lavoratore è, secondo Pfeffer, sbagliata, perché, anziché concentrarsi sul sistema organizzativo nel suo complesso, si tende a dare attenzione ad un singolo soggetto, dando erroneamente per scontato che questi sarà in grado di svolgere le proprie mansioni al meglio, solo in quanto considerato, in sede di assunzione, un “talento”.
I risultati del professor Groysberg sembrano però smentire questa affermazione, confermando, appunto, la tesi di Pfeffer.
I dati raccolti in sede di analisi mostrano come il 46% degli analisti che cambiarono compagnia subì uno shock a livello di performance l’anno successivo alla nuova assunzione.
Essi, inoltre, non riuscirono a recuperare un gap del 20% della produttività perso per almeno i 5 anni successivi all’insediamento nella nuova realtà organizzativa.
Come già detto, gli analisti non soffrivano mediamente di fattori esogeni , come la difficoltà di ambientamento susseguente ad un cambio di città, o la scarsa esperienza in un certo settore di investimento, in quanto essi continuavano l’attività lavorativa rimanendo a New York e operavano sempre nel proprio settore di competenza.
Dunque l’evidenza empirica mostra come le star di Wall Street abbiano subito personalmente il cambio di compagnia, poiché, anche se inconsciamente, le loro performance dipendevano anche dall’organizzazione in cui avevano lavorato fino a quel momento.
Un’organizzazione che magari li aveva cresciuti ed allevati, dandogli si maggiori benefici rispetto al resto della popolazione aziendale, ma per i quali nessun altro lavoratore avrebbe potuto obiettare, visti i risultati ottenuti negli anni.
Insomma, il talento all’interno di quell’organizzazione originaria riusciva ad ottenere risultati di un certo livello, non solo perché indubbiamente maggiormente capace di tanti suoi colleghi, ma anche perché in grado di sfruttare le sinergie organizzative su cui egli poteva contare.
Passando poi a considerare l’organizzazione nel suo insieme, sempre secondo Pfeffer, l’assunzione di soggetti esterni ad essa può risultare ulteriormente deleteria. Essa, può, infatti, portare ad “una diminuzione del team-work ed alla creazione di una negativa competizione interna fra i lavoratori”.
Lo studioso definisce ciò “una mancanza di condivisione di informazioni tra i lavoratori” e incolpa direttamente le metodologie utilizzate nella guerra dei talenti.
Se un soggetto è, infatti, maggiormente pagato in quanto considerato “talento”, non avrà alcun interesse a condividere le proprie conoscenze con gli altri soggetti organizzativi.
Inoltre i soggetti che risiedono all’interno dell’organizzazione e non posseggono un livello di skills molto elevato, vedendo arrivare dei nuovi colleghi, più capaci e sui quali viene prestata maggior attenzione (anche a livello remunerativo), perdono motivazione e, conseguentemente, il sistema organizzativo perde in termini di efficacia.
È quanto sostenuto anche da Groysberg, il quale sostiene che, inoltre, il risentimento verso il nuovo arrivato porti all’esclusione dello stesso dal gruppo, con ricadute anche sulla sua performance derivanti dalla maggiore difficoltà che esso trova nell’integrazione con i suoi nuovi colleghi, i quali diventeranno dunque per lui un ostacolo, almeno fino a quando la sua performance non diminuirà inevitabilmente.
In questo senso l’azienda dunque, può perdere il proprio know-how, ossia rischia di cedere gran parte del suo “sapere organizzativo”, l’amalgama fra i lavoratori, in favore di una presunta e non frequentemente (almeno senza un’adeguata struttura di contorno) rispettata potenziale redditività prodotta da singoli lavoratori molto qualificati.
Secondo Pfeffer, tale problematica è molto più diffusa di quanto sembri.
Egli cita, a titolo di esempio, il caso dello studio della Solomon Associates, nel quale si denota come nell’industria petrolifera, in quanto a costi di manutenzione e uptime, l’evidenza statistica mostri una variazione nelle performance dei due valori identica tra le raffinerie possedute da singole compagnie e altre possedute congiuntamente da più compagnie.
In sostanza vi è una totale assenza di qualsiasi effetto endogeno prodotto dall’impresa stessa su di essi, sintomo di una mancanza del fattore interorganizzativo, di collegamento tra i lavoratori, che possa conferire dunque un vantaggio competitivo a una piuttosto che ad un’altra compagnia.
Dunque l’organizzazione stessa rischia di perdere la sua alchimia, vittima di contrasti interni, oggetto di dispute personali e fini egoistici da parte dei singoli lavoratori.
Anche in questo caso, Groysberg pare confermare.
I dati della sua analisi, oltre a rilevare un abbassamento delle prestazioni del talento, riferiscono anche una chiara diminuzione delle performance degli altri lavoratori che già erano parte della forza lavoro delle banche di investimento.
Analogamente ai risultati rilevati da Pfeffer, anche Groysberg imputa questo shock prestazionale agli attriti che si vengono a creare tra i vecchi colleghi ed il neoassunto, il quale, essendo una figura privilegiata, demotiva i primi, che a volte avvertono anche il bisogno di cambiare organizzazione per ottenere un salto nella loro carriera lavorativa personale, vedendo già occupata da una star una certa posizione alla quale ambivano.
L'esecutivo, inoltre, tendendo a concentrare tutte le risorse sulla stella sulla quale ha investito molto, tende a privare le stesse al resto del team di investimento, rendendo complicato, per i soggetti che ne fanno parte, l'ottenimento di performance adeguate.
Quanto appena visto peraltro contraddice quanto avevamo visto in termini di compensation management, seguendo le teorie di Berger.
Se infatti lo studioso utilizza la remunerazione come strumento chiave per motivare tutti i lavoratori, dai più qualificati a quelli meno abili, l’evidenza empirica mostra come in realtà le imprese tendano spesso a enfatizzare il ruolo del top performer a scapito dell’intero complesso organizzativo.
Per ovviare a questo problema le imprese hanno iniziato a conferire dei premi remunerativi, sotto forma di percentuali, non più ai singoli soggetti, ma alle divisioni aziendali, in modo da agevolare e favorire il team work.
Tuttavia il modo di pensare previsto da The War for Talent (l’agire avendo un “mindset” orientato al talent management è uno dei punti focale del libro) lascia poco spazio all’interpretazione: la guerra fra imprese che ne è seguita è stata orientata all’esaltazione del singolo, anzi, si può dire che lo rabbia reso inevitabile.
Se un soggetto con quelle qualità è considerato merce rara e, dunque, ha grande potere contrattuale, è ovvio che una visione che ne contempli la centralità non può essere concepita in nessun altro modo.
A parte la competizione interna che si viene a creare assumendo soggetti dall’esterno, un altro elemento che può generare instabilità fra i vari soggetti organizzativi è insito al lavoratore, anche se particolarmente talentuoso, che viene acquisito dall’esterno.
Egli, diversamente dai soggetti già operativi all’interno dell’organizzazione, è quasi certamente estraneo alla stessa, non ne conosce i processi operativi.
L’apprendimento, oltre ad essere oneroso per l’impresa, può non essere efficace in termini di tempistiche e di livello di performance raggiunte.
Tutto questo a prescindere dal fatto che un soggetto esterno rimane comunque un grande punto interrogativo per l’impresa: della sua storia non si può conoscere tutto, vi è solo la nomea e le qualifiche che egli ha maturato nel corso della sua formazione scolastica e lavorativa.
Ma non vi è certezza alcuna che le sue caratteristiche possano davvero corrispondere a quelle necessarie per l’impresa, né vi è certezza che la sua presenza sarà ben integrata a livello organizzativo.
Non solo.
La forte enfasi che viene riposta su questi soggetti, ha un effetto negativo su tutti gli altri.
Pfeffer sostiene infatti che esaltare solo alcuni soggetti possa “far rendere il resto della popolazione organizzativa al di sotto delle proprie capacità”.
Non basta, dunque, la remunerazione (nelle sue varie forme), così come suggerito da Berger, in quanto la performance di un soggetto dipende da “una miriade di fattori”, a volte anche emozionali.
Pfeffer lo definisce un tipico caso di “profezia auto avverante”, ossia quel comportamento, noto in ambito organizzativo, per cui un soggetto riesce a performare in una certa misura, se le aspettative che vi erano su di lui erano di un certo tipo.
E allora, se un’ampia parte di popolazione aziendale diventa scoraggiata, poco motivata, a causa della presenza di nuovi soggetti decisamente superiori in termini di performance, l’impresa rischia di perdere l’integrità della sua struttura organizzativa, con i conseguenti problemi già evidenziati in precedenza.
Il problema è, dunque, in questo senso, culturale: il mindset richiesto da The War for Talent ha portato nella pratica ad una concezione per cui si debba fare molto per pochi e non ci sia molto spazio per tutti gli altri.
In questo modo il talento rischia di spezzare il sistema, l’essenza dell’organizzazione e creare numerosi danni. Dunque l’assunzione dall’esterno rischia di diventare un’arma a doppio taglio, rendendo il talento un elemento molto pericoloso all’interno della realtà organizzativa.
Pfeffer sostiene che ciò non sia comunque un problema privo di soluzioni, anche se esse non sono di facile applicazione. L’impresa dovrebbe gestire i propri talenti in maniera differente, dando maggiore attenzione ai lavoratori che già possiede, secondo l’autore.
Insomma dovrebbe sviluppare il proprio sistema organizzativo, piuttosto che aggiungere al suo parco lavorativo una serie di talenti presumibilmente molto capaci, ma non necessariamente ben performanti all’interno della propria realtà organizzativa.
Se non lo fa, le ricadute possono essere ben più ampie di quanto non si immagini.
Si osservi, a tal proposito, un altro risultato molto rilevante derivante dalla analisi di Groysberg, ossia la diminuzione del valore della compagnia stessa.
Gli investitori vedono nell'assunzione dei talenti un fattore che distrugge valore, come nell'esempio citato dall'accademico nel quale nel 1994, in seguito all'annuncio dell'assunzione di nuove star da parte di Bear Stearns, Merrill Lynch e Salomon Brothers, vi fu un crollo medio del loro valore azionario di circa lo 0.74% e ciò avvenne ogni qualvolta una banca di investimento fece un annuncio del genere.
Ciò risulta essere abbastanza paradossale, in quanto le banche di investimento miravano, con tali assunzioni, a rivalutarsi proprio sul mercato azionario.
Si può imputare la causa di tali eventi al fatto che gli investitori non vedano di buon occhio l'assunzione di nuove star, in quanto essi ritengono che l'eventuale miglioria in termini di performance aziendali sarà compensata da una maggiore spesa per stipendi. I dati pubblici relativi all'underperforming degli investitori più talentuosi una volta entrati in una nuova compagnia hanno fatto il resto.
La storia ha insegnato che ogni volta che una banca di investimento ha provato ad emergere o migliorare la propria condizione mediante l'assunzione di talenti esterni, ha fallito, con conseguenti aggravi di costo molto importanti.
In definitiva le compagnie tengono conto di una serie di fattori individuali come le qualità innate e la storia accademica e lavorativa della persona, ma tendono a sottovalutare una serie di altri fattori, dipendenti direttamente dall'organizzazione, spesso molto rilevanti.
Groysberg, il quale afferma che "quando i ricercatori studiarono le performance di 2086 manager di fondi di investimento, dal 1992 al 1998, scoprirono che il 30% di esse era attribuibile all'individuo, mentre il 70% era attribuibile all'istituzione in cui essi lavoravano", elenca sei fattori chiave.
In primo luogo le risorse messe a disposizione da parte dell'organizzazione al lavoratore: se non sono adeguate egli sarà costretto a rallentare la propria produzione, perdendo decisamente in quanto a livello di performance.
Secondariamente, i già citati processi inter-organizzativi. Essi sono una chiave per il successo personale in quanto rappresentano il modo con il quale l'organizzazione, in maniera sequenziale, risolve i problemi gestionali. La buona riuscita da parte di un soggetto organizzativo non può prescindere dal suo inserimento all'interno di questi meccanismi.
Così come non può prescindere dall'abilità dell'esecutivo di supportare i propri lavoratori. Se il CEO di un settore di investimento non riesce ad allocare correttamente le risorse che ha a disposizione, in particolar modo i propri analisti, non riuscirà ad ottenere un risultato soddisfacente, facendo venire meno le qualità insite in alcuni di loro.
Un altro importante fattore è rappresentato dalla rete comunicativa fra i vari reparti aziendali. Tutti i comparti devono infatti cooperare, mirare congiuntamente allo stesso scopo.
Per farlo la comunicazione fra reparti è fondamentale, perché apre a varie opportunità di redditività altrimenti difficilmente ottenibili.
Il quinto fattore è l'addestramento. Esso è ciò che permette ad un talento di migliorarsi continuamente e di essere maggiormente efficace e performante assieme all'organizzazione.
In pratica l'addestramento permette di sfruttare maggiormente le agevolazioni che l'organizzazione, in quanto tale, offre al singolo talento nella risoluzione dei problemi, ossia nel suo lavoro.
Infine, ma non meno importante, il team-work. I colleghi non dovrebbero essere un ostacolo per il talento, bensì una risorsa. Essi possono essere utilissimi in termini di conoscenza del mercato e la cooperazione può portare molteplici benefici, soprattutto in termini di produttività.
Il team-work, come ovvia conseguenza di quanto abbiamo visto in precedenza, è un qualcosa che difficilmente si può ottenere se si assumono soggetti esterni, quantomeno non nel breve termine. E la continua assunzione di nuovi talenti certamente non agevola il processo di cooperazione, anzi, lo rende vano.
Ad ogni modo, i fattori elencati, quando vengono meno (e l'evidenza empirica ha mostrato che ciò avviene di frequente), ossia quando si adopera un mindset orientato al singolo e non al gruppo, non possono giocare l'assai importante ruolo che altrimenti dovrebbero rivestire.
Il rischio dell'assunzione indiscriminata dall'esterno è proprio questo: rischiare di perdere risorse in maniera inutile, risorse che potrebbero invece essere usate in maniera molto più corretta, per un sano e maggiormente produttivo ambiente collettivo.
In un altro articolo, infine, Groysberg fa un'importante precisazione: non tutti i soggetti hanno la stessa capacità di integrarsi all'interno di una organizzazione. Alcuni si integrano per loro natura in maniera più rapida, altri in maniera più lenta.
Per provare quanto appena detto, lo studioso si riferisce ad un esempio sportivo, nel quale viene analizzata la performance di diversi giocatori considerati dei talenti nella NFL, quando essi cambiano casacca.
I giocatori nel ruolo di punter, dovendo calciare e quindi basarsi su una tecnica individuale, incontrano minori difficoltà quando devono cambiare squadra, rispetto ai ricevitori, che invece devono calarsi maggiormente nella realtà organizzativa di un team, dovendo "non solo avere sufficiente velocità, ma anche capacità di coordinarsi la distanza, la direzione ed il tempo della loro azione con il quarterback".
Ciò accade anche in ambito aziendale, dove certi lavori sono maggiormente improntati sulle capacità individuali rispetto ad altri, maggiormente correlati con tutta la realtà organizzativa.
Un'impresa dunque, in sede di assunzione dovrebbe, secondo Groysberg, tenere conto anche di questo fattore, con il quale si può provare a determinare aprioristicamente la ricaduta negativa in termini di performance una volta che un talento abbandona un sistema organizzativo in favore di un altro.

2.2 - I problemi derivanti dall’incertezza nell’ambiente esterno

Un altro problema nell’assunzione dei talenti risiede nella mancanza di precisione nella definizione di “talento”.
L'assenza di una precisa definizione crea, implicitamente, una difficoltà per l'impresa, che, assumendo dall'esterno, non riesce sempre a trovare ciò che cerca.
Come affermato dal Professor Cappelli infatti, l’assunzione dall’esterno può portare ad una mancanza di correlazione tra le richieste dell’impresa e le qualità del lavoratore, che possono essere insufficienti, non necessarie o addirittura troppo elevate.
Ciò si traduce in maggiori costi, causati sia dalla potenziale inefficienza del lavoratore stesso, sia dai costi potenzialmente elevati che l’impresa deve sopportare nella gestione della remunerazione.
Secondo Cappelli, questa è una tendenza auto consolidante, in quanto "il problema dell'assunzione di un'impresa è il problema della retention di un'altra impresa" ed entrambe, di conseguenza, riducono l'ammontare di risorse destinato allo sviluppo interno dei lavoratori, costringendo le imprese a basare la loro guerra sempre più sulle prime due variabili.
Lo studioso analizza il problema sotto diverse prospettive, trovando anche una possibile spiegazione al perché il recupero dell'occupazione post-crisi negli USA sia più lento rispetto al 1992 e al 2001, nonostante la crescita sia ritornata a livelli sostenuti.
Egli asserisce che la colpa sia attribuibile al comportamento operato dai datori di lavoro.
Egli infatti sostiene che la motivazione principale risieda nelle richieste estremamente elevate che i datori di lavoro richiedono ai nuovi lavoratori.
La Guerra per il Talento, dopotutto, se portata agli estremi, comporta esattamente ciò. A vincere, è chi ottiene i migliori lavoratori, dunque le richieste, in sede di assunzione, devono essere decisamente elevate e pressanti ed è per questo motivo che talvolta richiedono anche diversi mesi.
I datori di lavoro "avvertono una mancanza di talenti nel mercato del lavoro", così come afferma Cappelli, citando il report di Manpower Group, dove il 52% dei datori di lavoro negli Stati Uniti lamenta questo problema.
In realtà questa è una loro percezione, più che una realtà ineccepibile ed è dovuta, come già affermato, al fatto che più le imprese richiedono qualifiche ai loro lavoratori, per essere certe di avere davvero i migliori sulla piazza, più sarà difficile riuscire a trovare un equilibrio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro.
Insomma, se gli studiosi di McKinsey affermavano che sarebbe stato il talento ad avere il potere sul mercato del lavoro, questo potere si è ritorto contro il lavoratore stesso.
Ciò è un problema sia per le organizzazioni, sia per l'economia nel suo intero.
Se un lavoratore è costretto a dover aspettare così tanto per poter avere un lavoro, infatti, la ripresa subisce un conseguente ovvio rallentamento.
E, nonostante ciò si possa risolvere semplicemente addestrando i nuovi arrivati, la mancanza di risorse dedicate a questa pratica nelle imprese americane, rende sempre più complicata la questione.
Il problema, ad ogni modo, è molto chiaro: la difficoltà maggiore risiede infatti nel dover cercare di predire quali saranno le future richieste dei talenti nei confronti dell'impresa e quali saranno, vicendevolmente, le esigenze dell'impresa nei confronti dei propri lavoratori.
È su questo tema che Cappelli articola una sua importante opera, Talent on Demand.
Egli infatti sostiene che la presenza di incertezza riguardo alle richieste di domanda e offerta nel mercato del lavoro sia un grande ostacolo per l'assunzione di talenti dall'esterno e abbia generato le difficoltà appena citate, anche a livello macroeconomico.
In un periodo di grande incertezza economica come quello di una crisi e della successiva ripresa non vi è un ambiente certamente favorevole in questo senso.
Non si può sapere cosa sarà necessario all'impresa, nè quali saranno le richieste dei lavoratori nei confronti suoi confronti.
Ad aggravare le cose, “due terzi delle imprese statunitensi non pianifica il proprio bisogno di lavoratori talentuosi”, così come sostenuto da Cappelli.
Queste imprese avranno ulteriori problemi, perché ogni bisogno di nuovi lavoratori preparati sarà risolto in maniera assai casuale con potenziali aggravi di costo assai elevati.
Così come potrebbero generarne di ulteriori le tecniche di assunzione automatizzate, mediante l’utilizzo di terze parti o di software che standardizzano la pratica.
Cappelli infatti sostiene che se da un lato queste pratiche possono essere utili in termini di riduzione dei costi dell’assunzione, esse possono generare altri costi derivanti dall’erronea assunzione di persone che in realtà non possiedono le caratteristiche richieste.
Pertanto l’utilizzo di queste tecnologie non solo non aiuterebbe in termini di riduzione di costo, ma addirittura sarebbe un’aggravante, in quanto l’impresa rischierebbe di non avere più la capacità di assumere le persone realmente necessarie, in quanto essa non può essere una pratica standardizzabile, ma deve essere quantomeno adattata, caso per caso.
In un ambiente così instabile, dunque, vengono fuori tutti i limiti naturali dell'outside hiring, il quale avrebbe invece bisogno di variabili economico-sociali stabili, al fine di poter combinare le richieste delle due controparti del mercato del lavoro.
L'assunzione, dunque, ha dei limiti fisiologici, ineliminabili.
Innanzitutto, come abbiamo visto, un talento può anche essere assunto esternamente a costi inferiori, ma solo se il mercato del lavoro e le altre circostanze ambientali lo permettono.
Inoltre, sebbene essa abbia permesso in un certo modo di "esternalizzare" l'attività di learning & development e sia stata vista dunque come uno strumento molto utile per poter ottenere talenti ad un minore costo operativo, non teneva conto dei costi che ci sarebbero stati in termini di retention management.
Un lavoratore talentuoso, infatti, se non è legato ad una organizzazione, se non per questioni monetarie, avrà certamente interesse a sfruttare le proprie abilità e cercare opportunità lavorative migliori.
Dunque, la scarsa integrazione nei sistemi organizzativi, elemento tipico di una visione di questo tipo, presenta (in maniera più marcata di quanto non lo faccia uno sviluppo interno del talento) il problema della fuga del talento dall'organizzazione stessa, in quanto le sue performance non sono dipendenti da essa in maniera rilevante.
A conferma di quanto egli sostenga, Cappelli cita una serie di esempi derivanti dal mondo dell'industria della tecnologia informatica.
In questa industria, a partire dagli anni ’80 si verificò un boom derivante dalle sue ovvie potenzialità.
La grande crescita favorì lo sviluppo di nuove imprese e, conseguentemente, generò nuovi posti di lavoro, peraltro molto ambiti.
La Silicon Valley entrò in una era di grande fermento e le aziende in loco iniziarono a contendersi i lavoratori a suon “di stock options e progetti eccitanti”.
Erano già lontani i tempi in cui imprese come IBM sviluppavano i talenti internamente ed un settore in grande crescita aveva certamente bisogno di lavoratori pronti sul momento.
Probabilmente anche per quest’ultimo motivo l’espansione dell’assunzione just-in-time fu così importante in tale industria.
Ed in effetti fu proprio la possibilità di avere un grande numero di operatori qualificati in breve tempo a determinare il successo della Silicon Valley e a renderla un modello per quel settore, nel resto del mondo.
Tuttavia, se nel 1986 vi fu un picco negli stipendi dei laureati in tecnologie informatiche, vi fu in seguito un declino, determinato dalla recessione del 1991 e dal conseguente ridimensionamento delle stesse imprese.
La diminuzione delle opportunità generò un rallentamento nell’interesse dei giovani in un settore che fino a pochi anni prima aveva generato grandi prospettive remunerative.
Pertanto, nei primi anni ’90 i datori di lavoro di queste imprese lamentarono difficoltà nel trovare talenti che rispondessero effettivamente alle loro richieste.
Questo ciclo si manifestò in maniera identica pochi anni dopo.
Cappelli afferma che nel 1996-97 vi fu un incremento del 40% nei laureati in materie correlate all’industria informatica e un ulteriore aumento del 39% l’anno successivo.
Indubbiamente il settore non aveva perso la sua forza e continuava ad essere un motore trainante dell’economia americana, una volta passata la ventata che aveva colpito il Paese in generale. Vi erano dunque nuove grandi aspettative su di esso.
Ma, nuovamente, la recessione del 2001 portò alle stesse conclusioni di quella del 1991, segnando in maniera chiara come le imprese che assumevano dall’esterno non potessero detenere il controllo dell’offerta lavorativa e, dunque, dovessero essere dipendenti in maniera assai importante dagli accadimenti esogeni.
In definitiva, dunque, il problema delle organizzazioni che si basano sull’outside hiring è che esse sono poco preparate ad affrontare i rapidi cambiamenti ambientali.
La loro scarsa elasticità comporta degli inevitabili costi aggiuntivi ed una diminuzione delle performance.
Questi modelli, dopotutto, erano stati concepiti in un periodo storico nel quale le imprese non avevano un problema di incertezza così rilevante.
E, dopotutto, essi funzionarono, se, come afferma Cappelli, “le compagnie di assunzione, specializzate l’outside hiring, a metà anni ’90 triplicarono i loro risultati”.
I manager di allora lo ritenevano adatto perché osservavano dei risultati di un certo tipo ed erano certi che avendo i migliori lavoratori avrebbero avuto un vantaggio competitivo. Solo con il cambiamento dell’ambiente esterno, in effetti, si manifestarono i primi problemi.
È esattamente lo stesso concetto per cui il taylorismo-fordismo ha funzionato in particolare in un certo periodo di tempo e poi ha visto altre logiche di pensiero affiancarsi e addirittura superarlo in termini di efficacia.
Non che non ci siano principi tayloristici oggigiorno, come se le organizzazioni moderne, una volta trovate soluzioni più adatte al tempo storico in cui dovevano operare, li avessero "dimenticati".
Così come sarebbe errato affermare che lo sviluppo del talento interno sia una novità assoluta in ambito organizzativo.
Come abbiamo visto, infatti, era pratica comune per le imprese sviluppare i talenti internamente sin dagli anni ’50 e ad ogni modo questa pratica non si è azzerata neppure nel momento d’oro della Guerra del Talento a metà anni ’90.
Semplicemente, sono pratiche che si rincorrono e trovano applicazione a seconda del momento storico, che le rende più o meno adatte.
Si adattano, perché sostanzialmente è questo il ruolo dell'organizzazione stessa, ossia fungere da strumento con il quale i propri operatori possano agire in maniera migliore, più performante.
Esse hanno lo scopo di permettere ad essi di prendere decisioni operative migliori.
I processi di cambiamento sono però a volte lenti e ancora oggi osserviamo una tendenza molto improntata all’assunzione, nonostante tutti i problemi ormai noti.
Dunque non è strano osservare diversi autori di rilievo internazionale denotare problematiche evidenti e proporre una alternativa maggiormente incentrata sullo sviluppo dei lavoratori pre-esistenti in azienda.
Sviluppo che tuttavia non può essere ricopiato dalle pratiche di quegli anni, perché non terrebbe nuovamente conto dei mutamenti ambientali avvenuti nell’economia globale, in oltre mezzo secolo.

Capitolo III - La ripresa della pratica dello sviluppo interno dei talenti

Come abbiamo visto, dunque, esiste una alternativa al reperimento dei talenti sul mercato del lavoro, ossia il loro sviluppo interno.
Anzi, essa fu la risposta che le imprese diedero a partire dagli anni '50 fino ad almeno agli anni '70 (e anche oltre, nel caso della grandi compagnie).
Le imprese, fino a quel momento, più che cercare di assumere talenti dall'esterno, (una prerogativa che sarebbe esplosa negli anni '90), li sviluppavano internamente, cercando di adattarli alla propria realtà.
La recessione dei primi anni '80, costrinse le imprese ad eliminare molte di queste tecniche di sviluppo interno, per via della loro onerosità, ritenuta ormai non più effettivamente utile.
Tuttavia le due alternative si sono in realtà spesso anche affiancate, in un continuum storico che ha visto fino ad un certo periodo prevalere la forma dello sviluppo interno dei talenti, mentre in altri ha visto le imprese concentrarsi maggiormente sulla assunzione dall'esterno.
Ciò non significa tuttavia che le imprese seguano a fasi alterne un solo modello e cancellino tutto ciò che riguarda l'altro.
Anche perché, se è pur vero che a metà anni '80 le imprese avevano diminuito il loro apporto allo sviluppo interno dei propri lavoratori, non vuol dire che non ci fossero casi diametralmente opposti.
Un esempio storico in questo senso può essere ciò che fece Toyota nel caso NUMMI, citato dal professor Pfeffer quale alternativa al modello dell'assunzione dei talenti.
Nel 1984, Toyota, prendendo le redini dello stabilimento automobilistico di Fremont, fino ad allora gestito da General Motors, non decise di rimpiazzare i lavoratori, considerati a quell’epoca i peggiori a livello di performance negli USA.
Non optò, dunque, per l’assunzione di nuovi soggetti, noti per essere estremamente performanti, in base alla loro storia lavorativa, ma al contrario generò una totale riqualificazione dei lavoratori presenti nell’impianto stesso, mediante un’operazione che coinvolse l’interno sistema organizzativo preesistente.
Toyota, insomma, operò sui lavoratori già esistenti, poiché conscia che l’assunzione di nuovi talenti non avrebbe favorito certamente lo sviluppo dei lavoratori già operativi in loco e avrebbe comportato uno spreco di risorse.
L’azienda giapponese migliorò invece le condizioni lavorative dei propri dipendenti americani, chiedendo in cambio un diverso asset organizzativo, improntato alla cooperazione, ottenendo risultati notevoli.
Un modo diverso di gestire la performance organizzativa, dunque, che eliminò i rischi derivanti dalle nuove assunzioni di personale qualificato e generò un miglioramento decisivo nelle performance dei soggetti che, secondo le teorie di McKinsey, non sarebbero stati di primaria importanza.
Toyota avrebbe potuto invece benissimo operare sostituendo completamente o quasi il comparto lavoratori, cercando nuovi operai, ma non lo fece.
Si concentrò, invece, sul cercare di migliorare coloro che erano già all'interno dell'organizzazione dell'impianto di Fremont, senza cercare dei top performer del settore.
Ed alcuni accademici ritengono questo modello un sistema su cui oggi bisognerebbe puntare maggiormente. Ciò non significa ritornare di punto in bianco alle pratiche degli anni ’50, in quanto vi sono delle sostanziali differenze tra l’uomo organizzativo dei giorni nostri e quello degli anni ’50.
Innanzitutto, a differenza di quanto accadeva in quegli anni, l’impresa vive in un ambiente molto più incerto per cui non può più predire il proprio futuro nel lungo termine, né, conseguentemente, i propri bisogni di capitale umano, come abbiamo osservato in precedenza.
Questa mancanza di certezza è un problema, dunque, sia per quanto riguarda lo sviluppo interno, sia per quanto riguarda la loro assunzione.
Non sapere quando si avrà bisogno di nuovi lavoratori, infatti, crea degli aggravi di costi in maniera fisiologica, perché se si cerca di sviluppare un proprio lavoratore non si sa se egli in realtà servirà, mentre se lo si reperisce dal mercato del lavoro in un’ottica “just in time”, abbiamo visto come essa venga meno per la problematica della retention.
A parte questo cambiamento, rispetto agli anni ‘50, è venuta meno la pratica per cui un lavoratore che iniziava a lavorare all’interno di un’impresa avrebbe proseguito per tutta la sua vita lavorativa all’interno della stessa.
Lo sviluppo interno all’epoca era “una scelta obbligata”, in quanto le imprese operavano nei modi appena citati e nessun lavoratore avrebbe avuto interesse a cambiare impresa, in quanto avrebbe dovuto ricominciare la propria scalata verso i posti più ambiti dall’inizio.
Una scelta dovuta al fatto che non vi erano, in molti settori, un numero sufficiente di competitors dai quali poter attingere capitale umano, assumendolo.
Per questo motivo sia le imprese, sia i lavoratori avevano interesse a svolgere lo sviluppo interno.
Tuttavia, quando la contabilità divenne più precisa, rendendo ben evidenti i costi sommersi derivanti dall’utilizzo dell’internal talent development, la validità di quest’ultimo iniziò a vacillare.
Questo accadde in particolare negli Stati Uniti, dove, rispetto all’Europa, vi erano minori restrizioni legali in tema di lavoro e dunque era più facile licenziare i propri lavoratori e sostituirli con dei nuovi soggetti.
Questa maggiore libertà conferita alle imprese, unita alla superiore disponibilità di lavoratori qualificati rispetto a quanto potevano disporre in precedenza e le incertezze ambientali degli anni ’70 arrivarono a favorire (o per meglio dire, a rendere necessario) un cambiamento a livello organizzativo ed il proliferarsi dell’outside hiring.
I datori di lavoro non erano più obbligati a sviluppare i propri talenti internamente, potevano “comprarli” sul mercato del lavoro, una pratica certamente avvertita all’epoca come maggiormente economica.
Insomma, se è pur vero che il reperimento dei talenti all’esterno presenta una serie di elementi di criticità, è indubbio che esso sia una pratica meno onerosa di quelle che lo avevano preceduto, così come è corretto sostenere che esse presentassero dei difetti, che ne determinarono il loro declino.
La soluzione proposta da Cappelli si riferisce invece ad uno sviluppo per certi versi nuovo, anche se ricalca in parte quanto già praticato in ambito organizzativo, cercando di eliminarne i difetti che, a suo modo di vedere, ne hanno caratterizzato il fallimento.
Egli non propone un completo stacco da tutte le pratiche utilizzate negli ultimi 60 anni, cerca semplicemente di ovviare ad alcuni problemi dimostratisi evidenti nel corso della storia.
La sua proposta è, per certi versi, simile a quanto sostenuto dal Professor Groysberg, anch’egli harvardiano.
Secondo G., le imprese adottano tre tipologie di sviluppo delle persone alternative, di cui solo la terza, benché più onerosa, è l’unica accettabile.
Una prima tattica adottata da molte imprese è l’outside hiring, senza null’altro in termini di sviluppo interno.
In questo modo esse però si espongono ai problemi ben noti e già affrontati nel secondo Capitolo di questo elaborato.
In secondo luogo esse possono cercare di sviluppare i talenti all’interno “sapendo che un giorno li potrebbero perdere in favore di (compagnie) rivali”.
Ovviamente neanche questa pratica è consigliabile, per via degli enormi costi che potrebbero rivelarsi infruttuosi di ricavi qualora un impiegato decidesse davvero di trasferirsi in un’altra realtà.
Infine, le imprese possono invece scegliere una via, secondo G., molto virtuosa, nella quale esse dovrebbero non solo assumere ed in seguito sviluppare alcuni talenti, ma cercare anche di detenerli all’interno dell’impresa il più a lungo possibile.
Pur essendo consci dei costi, che però in questo modo potrebbero avere una logica.
Al di là delle metodologie usate, Groysberg si avvicina a Cappelli in quanto sostiene che ci siano dei fattori che hanno determinato dei problemi più o meno gravi per tutte le proposte viste finora.
Egli dunque propone, analogamente al suo collega, una visione che contempli una piena valorizzazione del soggetto, ma che altresì lo faccia in un’ottica mirata alla realtà moderna.
Egli, infatti, sostiene che lo sviluppo e l’addestramento siano egualmente importanti rispetto all’assunzione e che quindi si debba operare, in sostanza, in un’ottica di razionalizzazione dei costi, per quanto questa pratica rimanga la più dispendiosa.
Spendere un minor quantitativo di denaro in queste pratiche potrebbe portare ad un aggravio successivo, tipico della filosofia dei primi anni ‘90 per cui lo sviluppo dei talenti in via interna era caduto in disuso, quando si pensava di poter risolvere i bisogni di lavoratori assumendo just-in-time.
L’esperienza maturata tra il 1988 ed il 1996 ed analizzata come abbiamo già visto in precedenza, mostra infatti come le imprese che riuscirono ad integrare gli analisti finanziari all’interno della loro struttura furono meno del 3%.
Questo perché esse erano prive di un metodo che consentisse loro di lavorare il talento in maniera coerente con l’organizzazione, fondamentalmente perché non erano a conoscenza di queste problematiche, finendone vittime.
Problematiche che lo stesso Cappelli cerca di risolvere, mediante l’approccio che vediamo di seguito.
La proposta di Cappelli si basa su quattro principi chiave, che mirano a poter adattare il Talent Management alla realtà odierna.
Nella sua teoria, la centralità dello sviluppo dei talenti interni ritorna in grande auge, con degli ovvi accorgimenti, mentre l'assunzione dall'esterno diventa un elemento utile solamente in quanto capace di rendere più elastica l'impresa.
Quanto appena sostenuto si può notare già nel primo principio elencato da Cappelli, il quale si basa sull’operare una scelta tra sviluppo interno ed acquisto esterno, operata in modo tale da ridurre l’incertezza dal lato della domanda.
Si può in particolare ridurre i costi iniziando a ragionare sul quantitativo di talenti da assumere e da sviluppare, operando come in un’ottica di “make or buy”.
Ciò è dovuto al fatto che se da un lato è vero che è molto complicato dover predire il futuro ed i bisogni di una organizzazione, minore è la difficoltà nel riuscire a capire quanti costi siano necessari per ciascuna pratica.
In questo modo, “si crea una soluzione a quel problema per cui il vecchio talent management interno non funziona più e l’assunzione dall’esterno presenta dei limiti”.
Ciò che si cerca di evitare è quello di generare un livello troppo basso di offerta rispetto alla domanda di lavoro, perdendo delle occasioni che il mercato del lavoro offriva, oppure troppo altro, finendo per avere un ammontare troppo elevato ed inutile di lavoratori nel proprio portafoglio, con un aumento dei costi privo di utilità, al pari di quello che si otterrebbe da qualsiasi altro stock inutilizzato di fattori produttivi.
Ma le complicazioni arrivano, in particolare per chi sviluppa i lavoratori internamente, in tempi di incertezza economica.
Se un talento prosegue la sua carriera all'interno dell'impresa e non vede arrivare la tanto ambita promozione, sarà maggiormente intenzionato ad andarsene, in quanto, a differenza degli anni '50, non è più obbligato a dover ricominciare da capo il proprio percorso lavorativo.
In questo modo si rischia di perdere l'investimento operato fino a quel momento su di lui ed entra in gioco, esattamente come nel caso dell'assunzione dall'esterno, la gestione della remunerazione, che ad ogni modo comporta dei costi.
Di certo, in un periodo di grande competitività come quello contemporaneo, è impensabile sperare che il proprio dipendente sarà leale a vita con l'impresa.
Non è razionale pensarlo, in quanto egli ha un suo logico tornaconto, in quanto operatore economico e, pertanto, avrà interesse a dare priorità alla sua carriera, prima ancora che alla sua compagnia.
La compensazione, però, può giocare un'importante ruolo per ridurre l'incertezza, se vista sotto un'ottica diversa.
Essa, infatti può essere usata non come strumento per eliminare completamente la perdita di dipendenti, in quanto sarebbe troppo oneroso, mentre potrebbe essere comunque uno strumento utile per determinare con maggiore precisione l'ammontare del numero di persone che probabilmente sceglieranno di lavorare per un'altra impresa, rendendo meno complicato il dover quantificare i futuri bisogno di lavoratori.
In questo senso Cappelli probabilmente differisce da Groysberg, in quanto quest'ultimo non affronta con precisione questo problema, ma sostiene semplicemente che si debba fare il possibile per mantenere i lavoratori in azienda, denotandone si l'onerosità, ma non affrontando in maniera sufficientemente approfondita il problema.
Ad ogni modo, se la compensazione può essere uno strumento utile per i lavoratori in uscita, resta il problema di quelli in entrata.
I modelli tradizionali hanno, in quanto non sono in grado di opporsi in alcun modo all'incertezza del mercato.
Se si sviluppa internamente, si rischia di spendere soldi inutilmente in sviluppo di propri dipendenti, se si acquista dall'esterno si rischia di essere in balia di un fattore esogeno assai variabile quale la domanda di lavoro.
Cappelli dunque suggerisce che una risposta valida per cercare di contenere l'incertezza sia quella di valutare quale tra le due opzioni sia la più conveniente, confrontandone i costi.
La scelta della combinazione delle due pratiche è altresì essenziale al fine di essere certi di aver svolto quanto possibile per poter reperire in maniera corretta i talenti, una pratica non del tutto agevole in quanto essi rappresentano una categoria assai mobile e, come abbiamo visto in molteplici riprese, di difficile definizione.
L'impresa, a parte i casi estremi nei quali è costretta ad assumere competenze esterne non reperibili internamente o quando avrebbe troppa difficoltà nell'integrare persone esterne all'interno dei propri meccanismi, possiede sempre un certo margine di discrezionalità in questo tipo di scelta.
Ad ogni modo entrambe presentano dei costi fisiologici, pertanto la scelta di "make or buy" si dovrebbe sviluppare in seguito ad una serie di domande che il datore di lavoro si dovrebbe porre.
Innanzitutto, egli dovrebbe cercare di capire se il bisogno di talenti sia a breve o lungo termine.
Ovviamente, più si allunga il periodo, più sarà facile rientrare dei costi dello sviluppo di un lavoratore.
Inoltre la scelta viene influenzata da due fattori organizzativi: la presenza di una gerarchia che possa agevolare lo sviluppo ed il bisogno di mantenere la cultura aziendale corrente.
Se queste due variabili, in particolare la seconda, sono una prerogativa dell'impresa, la scelta penderà maggiormente per lo sviluppo interno, viceversa per l'assunzione dall'esterno.
Infine, l'aspetto forse più rilevante: occorre rilevare la capacità dell'impresa di predire il bisogno di talenti.
Maggiore sarà questa abilità, maggiore sarà la possibilità di implementare lo sviluppo interno.
Non è un caso, dunque, che in tempi di crisi le imprese si siano affidate maggiormente all'assunzione just in time, in quanto creare dei programmi di sviluppo interno senza poter comprendere le prospettive a 10 anni era vista come una logica improduttiva e troppo onerosa.
Si tenga conto, inoltre, del fatto che l'assunzione a tempo pieno non è l'unico modo per reperire i talenti acquisendoli dall'esterno.
Essi possono essere assunti con contratti di tipo diverso, "assumendoli in leasing per un aiuto temporaneo", rendendo più elastica questa pratica e maggiormente adatta in tempi di scarsa prevedibilità del futuro.
Ad ogni modo il problema risiede nei costi derivanti dalle due pratiche.
In particolare i costi possono derivare da un quantitativo troppo elevato o troppo basso di lavoratori in organizzazione.
Dunque la previsione deve orientarsi su un valore medio, assumendo che esso sia il più attendibile possibile.
Si tenga conto del fatto che detenere un minor numero di lavoratori rispetto al necessario è un problema di minore rilevanza rispetto all'averne un numero superiore, in quanto si può sempre compensare con pratiche di assunzione sicuramente meno onerose rispetto al mantenimento nella struttura organizzativa di personale non utilizzato.
Pertanto ha senso pensare di sviluppare internamente un numero minore di lavoratori rispetto al valore medio previsto, così da poter eventualmente sopperire con assunzioni esterne, magari con assunzioni a tempo determinato, per ridurre ulteriormente l'aggravio di costo.
Il minor numero sarà determinato in base all'affidabilità della previsione: minore si presume che essa sia, minore sarà il numero di talenti da sviluppare.
A parità di altre condizioni, dunque, l'assunzione dall'esterno giocherà un ruolo marginale, per compensare l'impossibilità di predire con certezza gli accadimenti futuri.
Se ciò fosse possibile, si potrebbe operare nel lungo termine e dunque si potrebbe sviluppare il lavoratore internamente per prevenire i futuri problemi di retention e potenziale scarsa integrazione all'interno dell'organizzazione.
Tuttavia, secondo Cappelli, esiste anche un modo per cercare di concepire lo sviluppo interno in maniera tale da poter ridurre le problematiche derivanti dall'incertezza ambientale.
È questo, in effetti, il secondo principio della sua teoria, direttamente collegato al primo.
Il problema verte sul ridurre i costi che hanno determinato il declino del vecchio modello di sviluppo degli anni '50-'60.
Già in quel periodo si praticava la pianificazione dei bisogni di lavoratori, ma la concezione era assai differente.
Non si operava, infatti, secondo una logica di ottimizzazione dei costi, in quanto la contabilità non era ancora in grado di rilevare il loro impatto nel lungo termine, pertanto l'unica preoccupazione era quella di non andare incontro ad una mancanza di personale.
Inoltre l'utilizzo di modelli statistici anche sofisticati, quali modelli di regressione, non poteva prescindere da una serie di errori inferenziali ineliminabili, dovuti in particolare ad errori di calcolo (la mole di lavoro era davvero impressionante ed effettuata senza l'ausilio dei calcolatori moderni) e alla non certa attendibilità dei dati reperibili.
Certamente oggigiorno questa pratica è aiutata dall'utilizzo delle nuove tecnologie informatiche, che aprono in questo senso numerose potenzialità per una organizzazione.
Ci sono due modi per effettuare questa analisi: basarsi su dati storici, oppure cercare di capire come certi fattori, che si devono ancora manifestare, possano influenzare il futuro.
Nella prima ipotesi occorre prestare molta attenzione all'errore statistico.
La materia in questione è assai variabile e può dipendere da fattori altamente soggettivi.
Da un punto di vista statistico, dunque, occorre una analisi assai minuziosa di tutti i fattori che potrebbero influenzare il comportamento dei lavoratori, dando rilevanza anche alle tipicità delle singole aree geografiche.
Cappelli cita come esempio il caso della Pennsylvania, dove "il livello di licenziamento e di assenteismo sale durante la stagione della caccia".
La necessità di un alto numero di dati, inoltre, rende questa soluzione complicata per le imprese affacciatesi recentemente sul mercato.
Il secondo approccio consiste invece nel cercare di valutare il possibile impatto di un nuovo fattore, strettamente correlato con l'impresa, ad esempio la scelta dell'impresa di affacciarsi in un nuovo business a lei estraneo.
In questa particolare modalità si descrive un possibile quadro generale di ciò che potrebbe accadere in seguito all'avvento di suddetto fattore.
Susseguentemente a queste analisi si passa a predire il futuro equilibrio tra offerta di lavoro proposta dall'impresa e domanda di lavoro, derivante dal mercato del lavoro.
In questo senso, allora, la gestione della compensazione diventa davvero fondamentale, in quanto, come abbiamo visto, permette di poter predire con maggiore precisione i futuri bisogni di talenti, in modo da ridurre maggiormente gli eventuali mismatch costs tra domanda e offerta.
La sua rilevanza aumenta anche in virtù del fatto che poco o nulla si può fare nella previsione del mercato del lavoro.
Esso dipende infatti in larghissima parte da fattori esogeni, micro e macroeconomici, che sfuggono al controllo dell'impresa.
Il vantaggio, rispetto a 50 anni fa, risiede sia nel fatto che le tecniche di analisi permettono di ottenere risultati in maniera quasi immediata, potendo modificare in corsa una determinata azione susseguente ad una previsione precedente, rivelatasi sbagliata, sia al fatto che ci sono una serie di opzioni risolutorie quali l'utilizzo di contratti a tempo determinato o a progetto, che possono ridurre l'impatto di un eventuale errore.
Può accadere che dalla previsione si riesca a determinare con precisione l'azione da eseguire, ma, come accade nella quasi totalità dei casi, in realtà questo non avviene.
Nella pratica, dunque, sembra complicato poter applicare esclusivamente dei programmi di sviluppo interno, senza prescindere da un margine apposito all'interno del quale si può operare assumendo dall'esterno.
A parte le problematiche derivanti da una previsione non ottimale, l'azione dello sviluppo è ulteriormente complicata dalla presenza di una grande decentralizzazione delle organizzazioni moderne.
La struttura a divisioni, infatti, anche se presenta degli ovvi vantaggi in termini di efficienza a livello locale, presenta delle problematiche di coordinamento a livello generale.
A risentirne è proprio lo sviluppo interno dei lavoratori, in quanto se ogni divisione presenta una gestione propria di Talent Management, diversa dalle altre, diventa ovvio osservare come da questo punto di vista ciascuna di esse diventi un compartimento stagno rispetto alle altre.
Un lavoratore all'interno di una divisione, dunque, potrebbe avere grandi problemi a trasferirsi in un'altra, anche se relativa alla stessa impresa, un po' come se egli dovesse cambiare completamente azienda.
Ecco, dunque, che diventa assai importante mantenere, quantomeno, un programma di sviluppo coordinato fra tutte le divisioni.
In questo modo si eviterebbe il rischio di rendere lo sviluppo di un lavoratore valido esclusivamente per una divisione, suddividendo maggiormente i costi per lo sviluppo del talento stesso.
Inoltre, suggerisce Cappelli, questo procedimento maggiormente centralizzato può essere utile in quanto permette di operare, a livello corporate, come il portafoglio azionario di un investitore.
Se, infatti, un'impresa opera gestendo il rischio derivante dallo sviluppo interno in maniera centralizzata, operando intorno ad un valore medio, i costi derivanti da un sovrautilizzo dello stesso si bilanceranno con quelli derivanti da un sottoutilizzo in un'altra divisione, andando, in definitiva, a ridursi.
Lo sviluppo interno, inoltre, potrebbe essere più efficace se basato su previsioni di breve periodo, piuttosto che di lungo.
In un periodo di grande incertezza, questa affermazione risulta essere quasi un'ovvietà: maggiormente lungo sarà il periodo di riferimento, maggiori saranno le possibilità di commettere errori in sede di analisi e, susseguentemente, in sede operativa.
Infine, un ultimo aspetto da considerare per quanto riguarda specificamente lo sviluppo interno, riguarda i tempi necessari allo sviluppo dello stesso.
Impiegare un periodo maggiormente lungo di tempo per sviluppare un talento, infatti, aumenta i costi, in quanto ritarda la possibilità di recuperare gli stessi mediante il lavoro del lavoratore addestrato.
Al contempo, esso implica una minore possibilità di responsabilizzazione dei costi, in quanto essi vengono ripartiti su più anni e sono di difficile attribuzione.
Dannosi, in particolare, possono essere quegli elementi che rallentano non l'apprendimento in sé, ma l'immissione dei talenti nel ciclo produttivo.
Essi potrebbero benissimo utilizzare le nozioni apprese in un'altra realtà, rendendo un mero spreco le risorse utilizzate nel loro addestramento.
Ci sono dei fattori che alimentano i tempi di attesa, fattori sui quali l'impresa deve operare al fine di ridurre l'entità di questa problematica.
Innanzitutto essa dovrebbe cercare di non concentrare i corsi di sviluppo in un solo periodo dell'anno, in quanto rischierebbe di vincolare questo tipo di offerta in un solo periodo, ottenendo l'effetto "collo di bottiglia" nel flusso dello sviluppo.
L'impresa, se possibile, deve in definitiva "ridistribuire il flusso" dei propri applicanti, al fine di non perderli dopo averli lasciati per troppo tempo in attesa.
Un'altro problema relativo a questa logica è riferito ai tempi di attesa che coinvolgono le promozioni di lavoratori di una organizzazione.
Se un lavoratore, infatti, aspetta da tempo di poter accedere ad un livello superiore in quanto il soggetto che lo occupa è rimasto inaspettatamente nella stessa posizione, si può scatenare una reazione a catena per cui lo sviluppo dei lavoratori viene ritardato lungo tutta l'organizzazione, potenzialmente a tutti i livelli.
Un lavoratore potrebbe in questo modo scoraggiarsi e migrare verso altri lidi in cerca di un luogo dove poter sviluppare in maniera più rapida la propria carriera.
Compito dell'impresa è mantenere l'ambiente interno stimolante, onde evitare di incorrere in questo secondo tipo di strozzatura a livello di sviluppo del personale.
Infine un terzo problema con riflessi temporali è relativo alla possibilità che un candidato fallisca l'apprendimento.
Un tempo, qualora un lavoratore non avesse superato un programma di sviluppo, veniva eliminato dalla struttura.
Tuttavia, i costi che ne derivano sono assai rilevanti, in quanto si spreca de facto tutto l'investimento operato fino al momento dell'allontanamento.
Dunque un'impresa potrebbe trovare utile, in termini di costi, effettuare un secondo tentativo di sviluppo, che avrà sicuramente una percentuale maggiore di successo.
Il tutto deve avvenire senza però limitare la possibilità di altri candidati di poter effettuare il programma stesso, o questo secondo tentativo potrebbe trasformarsi in una causa di una strozzatura nel processo di altri soggetti, magari più capaci di colui che si cerca di recuperare.
Dunque l'impresa ha delle opzioni reali in mano, con le quali può effettivamente ridurre il carico dei costi derivanti dallo sviluppo interno, rendendo lo stesso maggiormente applicabile.
Tale concezione è implicita alla funzione stessa del Talent Management.
In effetti il TM non può essere inteso come fine a se stesso, ma deve presentare un carattere di redditività.
Ecco perché il terzo punto su cui si concentra Cappelli è riferito proprio alla capacità dell'impresa di generare un certo livello di ROI soddisfacente dall'investimento nello sviluppo dei lavoratori.
È questo, dunque, il fine ultimo della Gestione del Talento, il motivo per il quale le imprese già negli anni '50 sviluppavano dei programmi mirati per rendere i propri dipendenti maggiormente abili ed anche il motivo per cui le imprese si fecero guerra per assumere i migliori talenti sulla piazza ad inizio anni '90.
L'impresa oggi deve fare i conti con una realtà complicata e la redditività può risultare non sempre soddisfacente.
Essa dunque deve trovare delle vie alternative nella creazione di ricchezza.
Un metodo è sicuramente la possibilità di ridurre i costi derivanti dallo sviluppo, al fine di rapportarli ad un ammontare di ricavi che li possano giustificare nel loro ammontare ridotto.
Pertanto, ad esempio la riduzione dei tempi necessari allo sviluppo dei lavoratori può essere una soluzione in questo senso.
Inoltre le imprese potrebbero richiedere ai lavoratori che svolgono un programma di sviluppo "una condivisione dei costi".
Dopotutto essi sono i veri beneficiari dei programmi di sviluppo e potrebbero esportare le proprie conoscenze altrove, quindi tale richiesta non risulta essere così fuori luogo.
Un metodo con il quale il lavoratore può ripagare l'impresa è continuare a lavorare durante il periodo di sviluppo: non ricevendo un salario più alto, nonostante le sue competenze aumentino, comporta una sorta di compensazione.
L'impresa, inoltre deve cercare di operare non solo sui costi, ma anche sulla qualità del risultato.
Un talento dovrebbe essere infatti addestrato in particolare per i ruoli maggiormente rilevanti dal punto di vista organizzativo ed inoltre lo sviluppo stesso dovrebbe operare come scrematura tra coloro in grado di occupare posizioni di particolare rilievo e prestigio e coloro che invece necessitano di transitare per le posizioni intermedie, al fine di raggiungere una maggiore esperienza lavorativa.
Il quarto ed ultimo punto affrontato dalla teoria di Cappelli riguarda la retention del talento.
Abbiamo visto come, a differenza del periodo dell'Uomo Organizzativo degli anni '50, oggi gli impiegati abbiano effettivamente la possibilità di proseguire la loro carriera in un'altra organizzazione.
Essi non devono più ricominciare da zero, ma possono cogliere al volo opportunità lavorative stimolanti, in virtù del loro maggior potere contrattuale conseguito nei decenni.
L'impresa non può certamente impedire ai propri dipendenti di trovare migliori alternative, qualora esse si presentino.
Essa, però, può proporle di propria iniziativa, mediante la creazione di apposite bacheche di annunci di lavoro interne all'organizzazione.
In questo modo il lavoratore può proseguire la sua carriera, continuando ad operare per la stessa compagnia.
Tuttavia le problematiche di questo sistema sono rilevanti.
Se prendiamo a modello un'organizzazione molto decentralizzata, sarà infatti assai complicato sviluppare talenti internamente in maniera efficace, se questi continueranno a cambiare la propria posizione all'interno dell'organizzazione.
Inoltre sarà difficile riuscire a trovare un equilibrio tra le esigenze dei lavoratori (che saranno orientate verso un particolare tipo di occupazione, per gli stessi motivi, quali maggiore remunerazione e salto in avanti nella propria carriera, che li avrebbero spinti a cambiare compagnia) e le richieste della compagnia.
L'impresa, dunque, deve cercare di mitigare le due esigenze, con programmi appositi, che vanno dall'esposizione dei risultati ottenuti da precedenti lavoratori che hanno seguito un certo tipo di carriera interna alla negoziazione delle due esigenze vera e propria.
Sempre con riferimento a questa tematica, diventa rilevante cercare di capire chi potrebbe essere un candidato adatto ad assumere determinate posizioni, le cui disponibilità vengono postate nelle bacheche interne.
Tendenzialmente si cerca di chiedere ai superiori di una divisione di individuare tali soggetti, ma questo approccio può essere rischioso, in quanto essi, che hanno a cuore i risultati del proprio ramo organizzativo, difficilmente si priveranno dei propri migliori elementi.
Pertanto avrebbe senso permettere ai lavoratori di auto candidarsi a queste posizioni, in quanto, nonostante si corra il rischio di demotivarli in caso di fallimento, tale metodologia rappresenta il modo migliore per verificare se davvero essi siano davvero abili nella misura in cui sostengono di esserlo.
Nonostante i rischi, la responsabilizzazione dei dipendenti è un sistema assai positivo soprattutto in quanto riesce a stimolare i lavoratori, che possono così trovare le motivazioni per rimanere in impresa ed accedere ad un livello successivo della stessa.
Il test che ne segue dovrebbe essere una simulazione, al fine di ridurre al minimo i potenziali problemi derivanti da un fallimento dello stesso.
Questa misura, così come quelle precedenti, mostrano un chiaro intento di Cappelli.
Egli, come Groysberg, ritiene che il Talento sia si una risorsa scarsa, ma non per questo essa deve essere assunta in maniera scriteriata.
Sicuramente chiunque detenga i migliori lavoratori otterrà i migliori risultati produttivi.
Ma questa verità non può prescindere dalla considerazione dei costi necessari ad ottenere tali risultati.
Se un'impresa, dunque, vuole effettivamente gestire i propri talenti in maniera corretta, dovrà, secondo Cappelli, rivalutare il modello di sviluppo del personale, in quanto esso è l'unico modo attraverso il quale le imprese possono davvero gestire i propri dipendenti senza rischiare di tradire la loro base organizzativa.
Analogamente, però, il periodo storico in cui si affacciano le imprese oggi non può essere considerato un fattore di rilevanza secondaria.
Ecco perché le imprese devono dunque adattarsi alla realtà odierna anche nell'ottica della gestione delle risorse umane.
Se si tratta di talenti, poi, questa affermazione è anche maggiormente rilevante, in quanto essi hanno la capacità di muovere un quantitativo di denaro maggiore, sia in termini di produttività, sia in termini di risorse ad essi dedicate.
In definitiva, dunque, il talento è una risorsa preziosa, da maneggiare con cura.
Trattarlo con un sistema non metodico equivarrebbe ad una mancata gestione dello stesso e l'organizzazione sicuramente patirebbe una preoccupante mancanza di efficienza, in un settore aziendale che rappresenta uno dei più importanti, se non il più importante centro di costo.
La gestione appropriata dello stesso diventa dunque fondamentale ai fini del successo aziendale e la sua evoluzione in tempi di si focalizza su un aspetto diverso dai precedenti: non vi è più una mera guerra per assumere i talenti migliori, ma una battaglia costante per ottenere da essi la maggiore efficienza a livello organizzativo e reddituale.
La critica che si può muovere nei confronti di queste previsioni non è riferita tanto a quanto Cappelli e Groysberg prevedono e suggeriscono per il periodo storico che abbiamo appena vissuto e che stiamo continuando a vivere, bensì per il futuro.
Così come The War for Talent narrava di pratiche che sembravano essere le migliori del periodo, così Talent on Demand presenta degli assunti certamente ragionevoli, in quanto traccia dei problemi esistenti nella realtà moderna e li affronta in maniera sicuramente condivisibile.
Il problema è semmai riferito, così come lo era per il libro prodotto dai ricercatori di McKinsey, a cosa succederà in futuro.
Se, infatti, nell'arco di 5-10 anni (o anche più), le imprese dovessero finalmente ritrovarsi in una condizione di ritrovata stabilità economica, avrebbe senso continuare ad effettuare le costose pratiche citate da Cappelli?
Chiunque le praticasse si ritroverebbe a sostenere dei costi probabilmente non più necessari, soprattutto per quanto riguarda la parte previsionale.
Se la valorizzazione delle persone risulta comunque certamente rilevante, in particolare poiché permette di eliminare le problematiche strutturali osservate nel secondo Capitolo di questo elaborato, la parte relativa alla previsione statistica potrebbe in effetti risultare un inutile spreco di risorse.
In previsione di una realtà ambientale maggiormente affidabile, infatti, la semplice regressione statistica o anche la creazione di business plans potrebbero sicuramente ritrovare parte della loro affidabilità, rendendo le pratiche a breve periodo, ripetute (con relativi costi) non più necessarie.
Insomma, Talent on Demand presenta sicuramente degli assunti validi in un periodo di incertezza quale può essere quello successivo ad una gravissima crisi economica.
Quale che sia il presumibile futuro sviluppo organizzativo in termini di Gestione del Talento, non è dato saperlo, anche se molto probabilmente esso sarà figlio di un adattamento delle imprese ad una nuova realtà, auspicabilmente, di consolidamento economico.

Riferimenti bibliografici
Bibliografia
Libri * "The Principles of Scientific Management", Chapter One (F. Taylor, 1911) * "Organizzazione Aziendale: aspetti di base per l'interpretazione dei processi organizzativi", pp. 94, 160, 163, 164, 267 (G. Giorgetti G., 2013) * “A Conceptual View of HRM in Managing Human Assets”, Chapter Two (M. Beer et al., 1984) * “Dall'espansione allo sviluppo: una storia economica d'Europa, p. 345” (P. Massa, G. Bracco, A. Guenzi, J.A. Davis, G.L. Fontana, A. Carreras, 2005) * “Between Taylorism and Technocracy: European Ideologies and the Vision of Industrial Productivity in the 1920s”, p. 27 (C.S. Maier, 1970) * The War For Talent, p. 9, 19 (Ed Michaels et al., 2001) * “Industrial and Commercial Training” (Suzanne, Ross 2013) * “Talent Retention: An ROI Approach” (Jack J. Phillpps, Lisa Edwards, 2008) * Chapter of “International handbook of Giftedness and Talent”: “Understanding the complete choreography of talent development through DMGT-based analysis” (F. Gagnè, 2000) * “The talent management Handbook” (L.A. Berger, D.R. Berger, 2011) * "Talent on Demand: Managing Talent in an Age of Uncertainty ", Chapters 1, 3,4,5,7 (P. Cappelli, 2008)

Articoli scientifici

* "The Risky Business of Hiring Stars" (B. Groysberg, 2004) * “What do we mean by the term talent in talent management?” (C. Tansley, 2011) * "The War for Talent is back" (R.I. Sutton, 2007) * “Using performance management to win the Talent War” (H. Augunis, 2012) * Fighting the war for talent is hazardous to your organization's health, Organizational Dynamics, pp. 248-259 (J. Pfeffer, 2001)

* "A Supply Chain Model for Talent Management" (P. Cappelli, 2009) * "How to Minimize the Risks of Hiring Outside Stars" (B. Groysberg, L. Sant, R. Abrahams, 2008) * "Talent Management for the Twenty-First Century" (P. Cappelli, 2008) * "Bring back the Organization Man" (P. Cappelli, 2012) * "Why employers aren't filling their open jobs" (P. Cappelli, 2013) * "Why Companies Aren't Getting the Employees They Need" (P. Cappelli 2011) * “We can now automate hiring. Is that good?” (P. Cappelli, 2013) * "A Market-Driven approach to retaining talent" (P. Cappelli, 2000)

Risorse Web

* Elisabetta Bevilacqua, (2014) "La gestione dei talenti, chiave per il successo aziendale". Risorsa Web reperibile all'indirizzo: http://www.it-adp.com/assets/vfs/Family-27/AAA-New/News-e-Risorse/Rassegna-Stampa/Rassegna-Stampa-2013/ZeroUno-N.367-368-gennaio-febbraio-2013-Allegato-HR-Journal-ADP.pdf (consultato il 26/02/2015) * I. Wylie (2014), "War for talent goes on in recruitment". Risorsa Web reperibile all'indirizzo: http://careers.theguardian.com/war-for-talent-in-recruitment (consultato il 18/01/2015) * The Economist (2006), "The Battle for Brainpower”. Risorsa Web reperibile all’indirizzo: http://www.economist.com/node/7961894 (consultato il 15/01/2015)

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[ 1 ]. The Principles of Scientific Management, Chapter One (F. Taylor, 1911)
[ 2 ]. Organizzazione aziendale: aspetti di base per l'interpretazione dei processi organizzativi, p. 267 (G. Giorgetti, 2013)
[ 3 ]. Organizzazione aziendale: aspetti di base per l'interpretazione dei processi organizzativi, p. 92 (G. Giorgetti, 2013)
[ 4 ]. Between Taylorism and Technocracy: European Ideologies and the Vision of Industrial Productivity in the 1920s, p. 27 (C.S. Maier, 1970)
[ 5 ]. Organizzazione aziendale: aspetti di base per l'interpretazione dei processi organizzativi, p. 160 (G. Giorgetti, 2013)
[ 6 ]. Dall'espansione allo sviluppo: una storia economica d'Europa, p. 345 (P. Massa, G. Bracco, A. Guenzi, J.A. Davis, G.L. Fontana, A. Carreras, 2005)
[ 7 ]. Organizzazione aziendale: aspetti di base per l'interpretazione dei processi organizzativi, p. 163 (G. Giorgetti, 2013)
[ 8 ]. Organizzazione aziendale: aspetti di base per l'interpretazione dei processi organizzativi, p. 164 (G. Giorgetti, 2013)
[ 9 ]. A Conceptual View of HRM in Managing Human Assets, Chapter Two (M.Beer et al., 1984)
[ 10 ]. The War For Talent, p. 9 (E. Michaels et al., 2001)
[ 11 ]. “Understanding the complete choreography of talent development through DMGT-based analysis”, International handbook of Giftedness and Talent (F. Gagnè, 2000)
[ 12 ]. What do we mean by the term talent in talent management? (Carole Tansley, 2011)
[ 13 ]. What do we mean by the term talent in talent management? (Carole Tansley, 2011)
[ 14 ]. The Battle for Brainpower (The Economist, 2006)
[ 15 ]. The War for Talent is back (R.I. Sutton, 2007)
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